L’intervento
Il Partito democratico non è mai nato. Tra nostalgici del passato e liberal-liberisti subalterni al presente. Incapaci di affrontare la riforma delle riforme: lo stato
di Massimo Cacciari
Che un segretario in carica dichiari pubblicamente di ritenere i dirigenti del proprio partito interessati nella sostanza a null’altro che a conservare le proprie più o meno importanti poltrone, è cosa talmente eccezionale e grave da non poter essere derubricata a fatto di cronaca. Se lo si facesse, non si renderebbe neppure giustizia a chi ha espresso un tale giudizio. Né questo può seriamente venire in alcun modo ritrattato.
Ci sono davvero parole come pietre, che segnano uno spartiacque, lo voglia o no chi le ha pronunciate. Dopo di esse, si aprono due vie soltanto: o questo partito si rifonda, oppure ci si accomoda a gestirne la fine anche elettorale. Chi potrebbe domani dare la propria fiducia a una forza politica che il suo segretario ha così giudicato? Dunque, il momento è decisivo davvero per ciò che residua della cosiddetta “sinistra” italiana. Siamo all’ultimo atto, agli addii, o caduti al fondo sussiste la possibilità del contraccolpo, la palla non è del tutto sgonfia e ce la fa a rimbalzare? Per essere all’altezza della domanda, segretario uscente e gruppo dirigente del Pd dovrebbero anzitutto ragionare con tutta l’onestà intellettuale richiesta dalla catastrofica situazione sulle ragioni che a questa hanno condotto. La riflessione critica e autocritica sulla propria storia è fattore essenziale della strategia, e finora è del tutto mancata. Genealogia di una sconfitta, potrebbe essere intitolata. Sconfitta in cui tutte le componenti della sinistra italiana sono coinvolte, anche sul piano personale, chi qui scrive compreso. Innocente nessuno.
La domanda potrebbe essere così formulata: perché il Pd non è mai nato? Che questo sia un fatto nessuno potrebbe dubitarlo dopo le dichiarazioni di Zingaretti. Dal momento della sua fondazione il Pd non è stato che un succedersi di tentativi falliti. Perché? Per l’inettitudine dei suoi attori? Si trattava di un buon testo che è stato recitato pessimamente? Cambiati gli attori, scovati quelli adatti al ruolo e ben motivati a portare l’opera al successo, il problema sarebbe risolto? Il Pd non è mai nato perché nulla può nascere da energie esaurite.
Un mare mai prima percorso si era aperto con la caduta del Muro e le navicule antiche non potevano bastare. Aggiustate, rammendate, rammodernate sono giunte, invece, al Pd, così da non essere né atte alla nuova tempestas, né riconoscibili da chi un tempo vi si era affidato. Alla sempre più stanca ripetizione dei motivi, nobilissimi un tempo, del welfare socialdemocratico, corrispondevano i sogni di un moroteismo postumo - a entrambi, nipotini del “compromesso storico”, si opponevano, pretendendo di abitare nella stessa dimora, gli alfieri di una prospettiva liberal-liberista, del tutto subalterna alle ideologie allora vincenti intorno alle meravigliose e progressive sorti della globalizzazione economico-finanziaria.
Per tutti si trattava, nella sostanza, null’altro che di aggiustare la propria linea, adattandosi alle mutate condizioni. Una rincorsa del proprio tempo, o presunto tale. Una affannosa ricerca di apparire al suo passo, “moderni” - nell’organizzazione, nell’immagine del leader, nel “disincanto” con cui affrontare le nuove potenze del mondo globale - e perciò in costante inseguimento dell’ora. In tutte le componenti che decidono di dar vita al Pd, pur in forme specifiche a ognuna, la stessa assenza di pensiero critico, di un pensiero, cioè, all’altezza della crisi che aveva spazzato via il mondo di ieri.
Né socialisti né popolari comprendono la corrispondenza storica tra le politiche di welfare classicamente keynesiane e un determinato assetto dell’industria e della composizione sociale. Emergono figure di lavoro autonomo e dipendente, confuse tra loro, di lavoro precario, di sotto-occupazione che esigono tutela e rappresentanza sindacale e politica impossibili nelle forme tradizionali. Per farvi fronte non sembra praticabile che la via del crescente indebitamento. E questo produce l’autentica bancarotta generazionale che stiamo vivendo. La montagna del debito, chiaramente inestinguibile, produce un vero e proprio asservimento delle generazioni future, una loro universale dipendenza dall’impersonale Mercato. Per combattere questa catastrofe le culture politiche tradizionali si trovano del tutto impreparate: quella socialdemocratica persegue nei fatti una linea di assistenzialismo in deficit, quelle popolari e liberali si barcamenano intorno ad una, complementare in fondo, fatta di austerità moderata o di “solidarietà austera”. Non si punta sull’autonomo spirito di impresa, sui settori che guideranno la riconversione globale delle nostre economie, sulla scuola, sulla formazione. Si dilapidano, invano, immense risorse per fingere di salvare strutture industriali, nascondendone o ritardandone il fallimento, e non il reddito e la qualità di vita delle persone che loro malgrado vi lavoravano.
Ma è uno, fondamentale, il problema che i fondatori del mai nato Pd non sanno affrontare. Il problema cui tutti gli altri si collegano logicamente prima ancora che politicamente. La riforma delle riforme è quella dello Stato. L’avevano pur capito alcuni illustri Mentori di Pci e Dc: le risorse per lo sviluppo, per la difesa dei redditi più bassi, per creare l’humus in cui nascano nuove imprese e nuove professioni, non possono più venire da sensibili incrementi del gettito fiscale (lotta strenua all’evasione, benissimo - ma, contemporaneamente, si dovranno ridurre i livelli intollerabili dell’imposizione a chi paga), e non devono venire da ulteriori aumenti del debito. Soltanto un radicale, complessivo riassetto della struttura istituzionale, burocratica, amministrativa le garantirà. Dall’elefantiaco apparato ministeriale, che di anno in anno vede aumentare i fondi disponibili, ai catafalchi centralistici delle Regioni; dall’inflazione legislativa con relativa confusione di competenze tra i diversi livelli dello Stato, alla miriade di organismi inutili, che sopravvivono a se stessi - non si tratta di sprechi semplicemente, ma di una situazione che impedisce o blocca e frena ogni nuova impresa, ogni investimento. Su questa materia, sulla riforma dello Stato, tutte le componenti che hanno dato vita al Pd si sono mostrate essenzialmente conservatrici. Quando hanno proposto qualcosa, lo hanno fatto senza quella radicalità che la situazione storica impone, e alla fine hanno pasticciato invece che riformato. Ultimo capitolo di questa triste istoria, il referendum renziano. Le nuove generazioni da tutto potranno essere attratte fuorchè da una politica di conservazione.
Senza una visione di riforma che abbia questa ampiezza, non può riprendersi la sinistra italiana né il Pd. O la loro azione si muove in questa prospettiva, verso questo “fuoco”, o continuerà a disperdersi per centomila mediazioni e compromessi, con il solo risultato di ritardare il definitivo tramonto. È perfettamente inutile, se non ipocrita, denunciare la dilagante presenza di “poltronari” nel gruppo dirigente del partito, se quella genealogia che ho sommariamente indicato non viene messa in discussione. Un partito di mediazione e compromesso non può che generare la classe dirigente che tutta insieme, in solido, le parole di Zingaretti hanno “suicidato”.