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Politica
aprile, 2021

Il neo-lettismo alla Bim Bum Bam

Autoironia sui social, subbuteo, meme. Il segretario Pd sceglie la cultura pop per scardinare il passato. Una strategia comunicativa per distaccarsi dall’autoreferenzialità dei palazzi

Ma dove vai, se la corrente non ce l’hai? Specialmente in una formazione politica quale il Pd, dove le correnti, come noto, contano tantissimo; e il frazionismo è un rischio permanente, dopo avere già vissuto lo choc di una scissione. Ancor più se si ritorna dopo un lungo periodo all’estero, in tutt’altre (e gratificanti) faccende professionali affaccendato.

 

La risposta al quesito da parte di Enrico Letta, intronizzato all’unanimità quale segretario di un partito uscito malconcio e frastornato dalla fine traumatica del Conte 2, è, in tutta evidenza, la centralità della comunicazione. Naturalmente non con i format del partito personale (antitetico alla sua tradizione culturale), anche se è stato fatto emergere in maniera comunicativamente sapiente un inedito connotato “decisionista” della sua personalità. Bensì, con il ricorso a una “comunicazione transpolitica” fitta di riferimenti alla cultura di massa e all’immaginario pop, che potrebbe apparire curiosa (se non davvero da “famolo strano”) per il profilo di chi è stato direttore della School of International Affairs di Sciences Po e presidente dell’Istituto Delors.

 

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Ma si tratta, appunto, di una strategia e opzione comunicativa precisa, effettuata da un politico da tempo insofferente rispetto agli eccessi di autoreferenzialità dei palazzi “romani”, e con un tratto di attenzione per le tendenze della cultura pop. E che, per ritornare a un punto chiave, all’indomani dello scioglimento della sua antica corrente, ha mantenuto rapporti e scambi soprattutto con esponenti della cosiddetta «generazione Bim Bum Bam» (così l’aveva chiamata in un libro Alessandro Aresu), che vengono adesso valorizzati (come Giacomo Possamai).

 

E, nella «buona come nella cattiva sorte» degli anni successivi all’uscita da palazzo Chigi, a fargli da antenna è stato proprio un nucleo di comunicatori (capeggiato dalla portavoce Monica Nardi). Certo, poco dopo il suo insediamento alla guida del Pd, Letta ha dichiarato a Repubblica: «Io non credo che ormai la politica vada fatta con la comunicazione, si fa ancora nei territori, dalla base». E, infatti, i primi atti della sua segreteria hanno messo al centro - o hanno avuto come target e destinatari - gli iscritti, ai quali è stato inviato un questionario online - accolto da una risposta molto favorevole - e i circoli di base, a partire da quello di Testaccio (il quartiere di residenza nella capitale di Letta), evocativo sotto più di un punto di vista, per arrivare a quello degli expat di Bruxelles.

 

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Ma questo indirizzo non risulta affatto incompatibile con una scelta prioritaria di comunicazione, specie se in qualche modo anche “necessitata” per chi, dopo sette anni di “esilio (e autoesilio)” - e di “distanziamento” mentale - dalla politica nazionale si è ritrovato catapultato di nuovo nei Palazzi, vestendo parzialmente i panni del marziano a Roma (per dirla alla Flaiano). Il Pd ha continuato a manifestare in maniera evidente - a parte la stagione del renzismo - una grande fatica nel comunicare al passo coi tempi postmoderni. Un’irrisolta questione strutturale che rappresenta la coda di un fenomeno di lunga durata, quello di un disagio di fondo della sinistra italiana rispetto alla crescita del ruolo delle tecnologie comunicative dopo gli anni Ottanta.

 

Il Letta ritornante è, pertanto, anche un po’ spiazzante in questo suo scommettere su uno strumento che, da quelle parti, fa rima con la massima «tutti la cercan, nessun la trova». Ovvero, giustappunto, la comunicazione, da presidiare in maniera serrata, ed evitando scivoloni maldestri e adozioni improprie, come l’annessione d’ufficio al pantheon del comunismo all’italiana della “compagna” Barbara D’Urso effettuata dal suo predecessore.

 

Di qui, invece, una sfacciata (ed efficace) disinvoltura del neolettismo nel comporre i frammenti, che si susseguono via via nel corso di queste settimane, di una sorta di discorso amoroso di cultura pop. Ecco, quindi, la prima uscita pubblica in tv ospite di Zoro a Propaganda Live, programma molto amato da una sinistra diffusa, soprattutto giovanile, che si colloca oltre i confini del Pd. La moltiplicazione dei meme dissacranti relativi allo stato di turbolenza correntizia e alle battaglie interne: da quello che ritrae Letta in giubbotto antiproiettile, mentre scende da un elicottero in un ipotetico teatro di guerra, fino al pesce d’aprile (ma non troppo, e che ha suscitato varie reazioni, qualcuna divertita, qualcun’altra meno...) con la “designazione” del sempre muscoloso Arnold Schwarzenegger a suo «incaricato speciale per i rapporti con le correnti».

 

Ulteriore, inequivocabile segno del fatto che la lingua (e l’atto comunicativo) batte dove il dente duole. La gender issue impugnata come vessillo non contestabile per cambiare i capigruppo in Parlamento. L’autodefinizione come «sovranista europeo», giocato in chiave antisalviniana - e l’individuazione del segretario della Lega quale antagonista per eccellenza su cui battere e ribattere in termini di marketing politico. E, ancora, il tweet con la maglia personalizzata regalatagli dalla squadra di calcio del Pisa, quello per celebrare il settantesimo compleanno di Francesco De Gregori, e quello per 125 anni della Gazzetta dello sport (con tanto di hashtag dedicato #Gazza). L’utilizzo frequente pure di Instagram, il social più gradito dai millennial, dove la sua foto di profilo è quella di un calciatore formato Subbuteo con i colori del Milan.


Insomma, quella neolettiana pare una comunicazione transpolitica a tutti gli effetti, ossia in grado di usare i social media, l’autocomunicazione di massa, l’orizzontalizzazione, la cultura pop e i suoi simboli (specie attraverso la memetica) per creare un clima d’opinione e di simpatia favorevole at large, non direttamente in relazione alla competizione elettorale e al campaigning che, per il momento, sono di là da venire, e nondimeno costituiranno con le grandi città al voto in autunno un banco di prova decisivo per la sua nuova avventura.

 

E siamo, altresì, di fronte a quello che si può considerare come un “prodismo 2.0” (giocato, naturalmente, in modo più massiccio sulle tecniche comunicative e di storytelling rispetto al modello originario), che nasce precisamente dall’esigenza di conquistare il partito non avendo un controllo diretto preventivo delle “truppe” (come era per Romano Prodi, il quale arrivava all’inizio sulla scena politica da “generale senza esercito”).

 

E, sempre di qui, l’individuazione del correntismo precisamente come il bersaglio principale. Un revisionismo comunicativo forte, dunque, che sul piano politico avrebbe bisogno di alcune discontinuità rispetto alla fase precedente. E che, insieme alla piena adesione - e Letta ne è, difatti, un garante esemplare - all’agenda di Mario Draghi, necessiterebbe pure di un’opzione ancora più forte a favore di un riformismo (radicale) moderno, andando oltre quella «manutenzione del dolore» (rubiamo un’espressione al pedagogista Mario Caligiuri) molto autoriferita di cui sembra compiacersi una certa sinistra nostalgica.

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