Editoriale

Romano Prodi: «A 25 anni dall’Ulivo ecco come il centrosinistra può tornare a vincere»

di Marco Damilano   16 aprile 2021

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Era il 1996 quando il professore di Bologna portò al successo lo schieramento progressista. E ora racconta come andò e come potrebbe andare

Nostalgia, no grazie. Nessuno è meno nostalgico di Romano Prodi. «Venticinque anni? Me lo dice lei», si stupisce. «Venticinque anni», sospira. Di quella giornata ricorda l’attesa, il viaggio in treno da Bologna a Roma, in compagnia della moglie Flavia e di Arturo Parisi, «eravamo preoccupati...». Venticinque anni dal 21 aprile 1996, le prime elezioni vinte dal centrosinistra allargato agli eredi del Pci nella storia repubblicana, e forse anche le ultime. Venticinque anni dopo, un quarto di secolo, lo spazio di una generazione, il mito dell’Ulivo torna nell’agenda politica. Quel giorno Enrico Letta non aveva compiuto ancora trent’anni, oggi da segretario del Pd parla di nuovo Ulivo. E con l’Ulivo ritornano di moda i comitati, le agorà, le primarie, il maggioritario, la legge elettorale Mattarellum, di cui fu relatore l’attuale presidente della Repubblica, ora sostenuta perfino dal leghista Roberto Calderoli, l’autore del Porcellum che la cancellò. I felici anni Novanta dell’alba della Seconda Repubblica: Berlusconi contro Prodi, l’armata mediatica del Cavaliere contro il pullman del Professore, ma senza l’anti-berlusconismo che caratterizzò la fase successiva.


«Mi capita di essere fermato anche da giovani che non erano neppure nati e che mi dicono: il mio papà si ricorda di quella notte...», si rallegra nella sua casa a Bologna Prodi, il protagonista di quella giornata e non solo. «È stata l’unica vittoria. La gente aveva voglia di quella fusione dei riformismi, la vedeva come un disegno di ricostruzione dell’Italia. Era il primo passo per rimettersi a posto. L’Ulivo rappresentava qualcosa che nel Paese era già praticato o desiderato, almeno per una parte, un’altra lavorava per le divisioni. È stato l’ultimo momento in cui c’è stato questo sentimento collettivo. Non si può credere che la rappresentazione politica sia diversa dalla vita. Quando è diversa, non funziona».

 

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Un riformismo praticato, partecipato. La fusione di quella notte, nella festa romana di piazza Santi Apostoli, rimasta l’unica festa pubblica per una vittoria elettorale. Le bandiere verdi dell’Ulivo mescolate a quelle rosse del Pds e bianche dei popolari. «Governeremo noi. Ma faremo le riforme con gli altri. Non può bastare una maggioranza semplice, a questi cambiamenti deve partecipare tutto il Paese», disse Prodi dal palco, accanto a Walter Veltroni. Tra le 88 tesi stampate sul libretto verde dell’Ulivo, un quaderno con lo spazio per le note a margine a significare un lavoro aperto su scuola, Europa, libero mercato, concorrenza, privatizzazioni, con le assemblee dei comitati che intervenivano, emendavano, votavano in tutta Italia nelle assemblee di programma (costo della tessera di adesione diecimila lire), la tesi numero uno recitava: «Il nostro paese ha bisogno di completare la transizione aperta dalla stagione referendaria senza indugiare oltre in una terra di nessuno dove rischiano di cumularsi i difetti del vecchio e quelli del nuovo...». Si prevedeva una commissione Bicamerale per riscrivere la Costituzione e, per la prima volta in un programma del centrosinistra, si ipotizzava l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Su Berlusconi neppure una parola. Non un programma contro, la prova di una struttura a rete, partecipazione e decisione, e non si ripeterà più, altro che piattaforma Rousseau.

 

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Nella terra di nessuno, dove i difetti del vecchio si mescolano con quelli del nuovo, come recitava profeticamente quel testo, siamo prigionieri da venticinque anni. Di governi tecnici, di emergenza, di larghe e piccole intese e oggi, in piena pandemia, di unità nazionale. Di leadership che sembravano inaffondabili e che sono tramontate, di capi fortissimi, anzi fragili, di riforme mancate. E, per quel pezzo del Paese che si riconosce nei valori e nell’identità del centrosinistra, una via crucis di errori, guerre intestine, tradimenti, un rosario di segretari destinati a essere abbattuti, l’impossibilità di un progetto di riforme, di un orizzonte più ampio.


La vittoria nel 1996 arrivò alla fine di una campagna elettorale mai vista, cominciata nel peggiore dei modi, con Berlusconi trionfante nel primo confronto con Prodi organizzato a Milano dalla Confcommercio sul fisco: ovazioni per il leader del Polo, urla e fischi per il professore del centrosinistra. Poi, il cambio di passo. Per la prima volta c’era un unico comitato elettorale, in un salone nel romano palazzo Colonna di piazza Santi Apostoli. Moquette blu, qualche specchio esagerato, un grande open space in cui i volontari e gli staff dei leader lavorano uno accanto all’altro. «Siamo come i quattro dell’Oca selvaggia, i mercenari che riuscirono nell’impresa impossibile. La nostra è far vincere l’Ulivo», scherzava il coordinatore Roberto Morrione, giornalista Rai, tesserato del Pci e del Pds e ulivista ante litteram, fiuto politico, umanità generosa, durezza e creatività. Con Morrione c’erano il modenese Giulio Santagata che organizzava il pullman per il Professore e che sarà ministro nel secondo governo Prodi, il giornalista-intellettuale Andrea Salerno, attuale direttore di La7, l’umbro Walter Verini, oggi tesoriere del Pd. Sembrava all’americana, con i pullman di Prodi e Veltroni che andavano su e giù per l’Italia, ma in realtà fu una campagna artigianale. I programmi pianificati dallo staff a gomma e matita su un tabellone bianco via via infittito di date, con poche indicazioni («Prodi e Veltroni dovranno essere accompagnati dai candidati dei collegi di Camera e Senato. Visite e incontri a realtà significative. In serata eventi con folla»). La Canzone popolare di Ivano Fossati come inno, con le sue cornamuse e l’attacco corale («Alzati che si sta alzando...») scelta da Gianni Cuperlo.

 

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La partita all’improvviso salì di livello quando si capì che forse, incredibilmente, l’Ulivo avrebbe potuto vincere. Prodi segnò il punto in trasferta contro Berlusconi, sul terreno dell’avversario, in televisione. Prima nel faccia a faccia tra Prodi e il Cavaliere da Lucia Annunziata su Raitre, con Giovanna Melandri che estrasse una copia del programma del Polo in cui si annunciava lo smantellamento del Welfare State e i capi della destra in confusione. E poi con il secondo faccia a faccia Berlusconi-Prodi in casa Mediaset, da Enrico Mentana. «Tutti e due sono stati sopra la soglia della sufficienza. Uno più soprendentemente dell’altro», certificò il direttore del Tg5.


«I responsabili dei focus mi dissero a metà campagna elettorale: professore, deve essere più aggressivo, la gente vuole un leader forte. Io risposi: ragazzi, sono così, non posso essere diverso», ricorda oggi Prodi. «Li rividi una settimana dopo, avevano cambiato idea: professore, non cambi, va bene così. All’opinione pubblica all’inizio piace chi urla, ma quando devi costruire serve chi unisce».


La vittoria non si esauriva però nello spazio di una campagna elettorale. Per Prodi e per Parisi l’Ulivo era il punto di inizio per costruire una nuova stagione di democrazia: una democrazia dei cittadini, con soggetti politici nuovi, legati a un progetto di governo. «C’era un’atmosfera che non si è più ripetuta», dice il Professore. «Non era solo una battaglia elettorale, era un’idea di Paese nel senso della razionalizzazione, emozione, modernizzazione. Razionalizzazione, perché non si procedeva più secondo una divisione che derivava dal passato e dalla situazione internazionale, ma il futuro era nelle nostre mani. Emozione, perché era una costruzione fantasiosa, innovativa, la scommessa di persone nuove che si erano trovate a combattere come Davide contro Golia. Modernizzazione, con un’attenzione al ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo».


L’Ulivo era anche l’impasto, per la prima volta, di partiti e di società civile. La Quercia erede del Pci, in mano saldamente a Massimo D’Alema. I Popolari che saranno a lungo guidati da Franco Marini. I leader che incarnavano il sogno del Partito democratico: i sindaci, da Francesco Rutelli a Antonio Bassolino a Massimo Cacciari, Walter Veltroni, Rosy Bindi, il giovanissimo Enrico Letta. I cattolici. Gli intellettuali come Umberto Eco. E i padri nobili del governo ulivista, dove ministro dell’Interno era Giorgio Napolitano: Carlo Azeglio Ciampi, Beniamino Andreatta.


«La società civile ha costruito l’edificio, l’ha preso in mano con i comitati, i circoli. I partiti sono andati a fasi. In alcuni momenti c’era il senso di necessità e sentivano il bisogno di aprirsi, in altri si sono chiusi», riassume Prodi. Ma il modello Ulivo non era una storia solo del centrosinistra, non lo era ventincinque anni fa, e non lo è neppure ora. «L’Ulivo era una proposta nuova per il Paese che chiudeva un’epoca e ricomponeva in modo razionale e emotivamente solidale il sistema politico italiano, mettendo insieme i riformisti con i riformisti e i conservatori con i conservatori. Ho sempre ritenuto che fosse questo l’interesse del Paese e lo penso tuttora. La mia idea - è sempre stata questa, non ne ho cambiate molte nel corso degli anni - è che ci dovesse essere l’interesse di entrambi gli schieramenti per una legge elettorale maggioritaria», ripete Prodi, nelle giornate in cui si torna a parlare di Mattarellum. «Credo che alla fine si tornerà al sistema maggioritario. La società è così frammentata che serve un momento di unità. Due mesi fa erano tutti per la proporzionale, oggi molti, ma non più tutti. La proporzionale è l’affermazione dell’identità, la Germania è in grande coalizione da anni, Israele che ha la proporzionale va a votare ogni anno, la Spagna ha grandi difficoltà».


Quel governo cadde nel 1998, nell’aula della Camera, per un solo voto, con il no di Rifondazione comunista e una manovra che portò D’Alema a Palazzo Chigi, senza passare dal voto. «Il mio primo governo si fermò a metà legislatura, prima di fare la riforma sociale e fiscale e la riforma scolastica. L’euro ha voluto dire riorganizzare la spesa, la finanza. Le riforme si fanno con la credibilità. Nel 2006 mancò l’emozione. L’Unione proseguì il disegno, ma mancava l’entusiasmo che lo sosteneva», spiega il Professore.


Di quel governo faceva parte Mario Draghi, direttore generale del ministero di via XX Settembre con Ciampi. Quattro anni fa, commemorando il banchiere centrale eletto al Quirinale, Draghi ha speso per quell’esperienza di governo parole non rituali: «Viene da riflettere sui fattori che hanno reso possibile al Governo Prodi e al ministro Ciampi questa determinazione unita a una prospettiva di medio lungo termine. La prima ragione è la libertà dall’emergenza: la stabilità è essenziale per fare riforme ben disegnate. La seconda è la durata del Governo, circa due anni, più lunga di quella dei quattro esecutivi precedenti. Il Governo aveva due requisiti che congiuntamente erano mancati agli esecutivi precedenti: era l’espressione diretta di una consultazione elettorale e per gran parte del suo mandato non ha visto i suoi membri cadere per motivi giudiziari... In un Governo dalla composizione quanto mai variegata che vedeva sei partiti nella coalizione e nove partiti che offrivano l’appoggio esterno, diveniva essenziale, per poter prendere decisioni, e decisioni tanto importanti, un particolare modo di gestire i rapporti al suo interno che sapesse rafforzare la lealtà e il rispetto tra i suoi membri». La durata. La coalizione ampia. La capacità di leadership. Parole attuali, oggi che a Palazzo Chigi c’è Draghi.


Da allora in poi, il Pd ha governato molto, spesso, quasi sempre. Ma senza mai vincere le elezioni: a volte non-vincendo, come Pier Luigi Bersani nel 2013, altre volte perdendo fragorosamente, come Matteo Renzi nel 2018. Mentre, per paradosso, l’unico leader del centrosinistra che ha vinto per due volte le elezioni è stato rovesciato. Prodi accetta la provocazione: «Il dramma dell’Italia è la scarsa durata dei governi. L’alternanza è sana, entrare dalla porta del servizio al governo non dà la gioia del governare e la gente non ti segue. Se vai al governo con un consenso debole, o senza aver vinto le elezioni, non ti manca solo la spinta popolare, ma per andare al governo diventa obbligatorio un compromesso che tu ancora non conosci con forze alternative. E del progetto iniziale perdi sia l’aspetto razionale che quello emotivo».
Per questo il successo del modello Ulivo avrebbe significato già negli anni Novanta una carta possibile di trasformazione anche per il centrodestra, in senso moderato e europeista. Il fallimento di quel progetto ha invece condannato il centrodestra al berlusconismo estremo e poi al salvinismo e la sinistra all’anti-berlusconismo e alla nostalgia del passato. Fino a consegnare lo spazio di manovra al populismo e al falso refrain della scomparsa delle categorie di destra e sinistra.


Il modello Ulivo significava anche un certo tipo di leadership. «Prodi era la colla, profumata come il Vinavil», dice il Professore. «Una leadership coerente con la coalizione. Non ho mai fatto il leader politico e neppure il presidente del Consiglio se non come caposquadra. In quel governo si discuteva per ore in modo totalmente personale, senza delegazioni di partito. In una società come l’Italia il leader carismatico regge poco, deve avere una visione forte. Il Parlamento è il cuore della democrazia, il governo deve avere un rapporto forte con il Parlamento, dove si discute e poi si decide». Oggi si dice che Enrico Letta aspiri a quel modello. «Letta è un uomo di conciliazione, non ha alle spalle la tradizione di un partito burocratico», risponde Prodi. «Nella società c’è un cambiamento impressionante, ho letto il libro di Andrea Riccardi con i dati quantitativi della frequenza nelle chiese e la rapidità con cui mutano i comportamenti e le credenze. Spero che Enrico abbia le antenne per fare presto. Con la saggezza della persona matura che deve saper interpretare i fatti nuovi. I giovani sanno molto più di noi, ma con una conoscenza frammentata, questo è il compito di chi governa. Il governo è sintesi, la sintesi della conoscenza frammentata».


Nella terra di nessuno la sintesi è oggi affidata a un difficile governo di unità nazionale. A una riforma dello Stato rimasta incompiuta. A una rappresentanza dei cittadini nelle istituzioni tutta da ripensare, quando verrà il momento di ricostruire, con partiti che saranno irriconoscibili e che dovranno cambiare se non vogliono scomparire. A quel riformismo partecipato, popolare, praticato, diffuso che venticinque anni fa si chiamò Ulivo e domani chissà. Un progetto per tutti, che ancora manca. Per questo non è nostalgia.