Crisi a 5 Stelle
L’ex premier, in autoisolamento (politico) nella sua casa, pensa a un partito su modello spagnolo: moderazione, europeismo e meet up. Ma con Grillo ci sono tensioni. Casaleggio prepara il divorzio. E nel Movimento c’è uno spaventoso vuoto di potere
di Susanna Turco
Giuseppe Conte è il primo romano che abbia ricevuto la citofonata convinta di David Sassoli negli ultimi otto anni. Se ne ha prova certa, dacché durante le primarie del 2013 per le elezioni a sindaco di Roma, il dem che oggi siede sulla poltrona di presidente del Parlamento europeo fece un breve spot - dimenticato dai più - in cui, in compagnia dell’attore Andrea Rivera specializzato in sketch nel ruolo di citofonista, si presentava a vari portoni della Capitale, col microfono in mano, per interloquire con i romani e farsi così campagna elettorale. «Non ce la faccio», proclamava Sassoli alla fine del video (vinse Ignazio Marino, lui prese il 28 per cento, Paolo Gentiloni la metà).
Ecco domenica scorsa, all’ora del tè, Sassoli - che pure non ha scampanellato a nessuno per parlare di Turchia e diritti umani - ha citofonato di nuovo. A Giuseppe Conte: un altro che, diciamo, non ce la fa. L’ex presidente del Consiglio che compariva in tv con il favore delle tenebre, lasciato il potere quel giorno di febbraio in cui uscì da Palazzo Chigi per parlare in strada, davanti a un banchetto di soli microfoni - ultima geniale trovata di Rocco Casalino versione deluxe - è da settimane in autoisolamento nella casa vicino a piazza Fontanella Borghese, intento in una impresa che pare via via sempre più prepotentemente kafkiana: rimettere in connessione i pezzi di ciò che una volta era il Movimento Cinque Stelle e capeggiarlo. Un compito in sé complesso, in un panorama la cui surrealtà è riassunta nel fatto che esista in Parlamento un gruppo di ex dal nome “L’alternativa c’è”, ma che si complica e si sfarina ogni giorno che passa. Lontanissimo il tempo in cui la leadership di Conte regalava punti nei sondaggi ai Cinque Stelle, contribuendo a provocare le dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd. Adesso, all’opposto, mentre i vertici del Pd si sono riorganizzati - e Goffredo Bettini ha trovato un nuovo modo di difendere l’ex premier dicendo che è stato buttato giù dai poteri forti - nel M5S c’è uno spaventoso vuoto di potere: il vecchio capo non c’è più, il nuovo tarda assai, nel mezzo l’assenza è talmente consistente che il Tribunale di Cagliari ha nominato un curatore speciale (sembra una fake news, non lo è), determinando così una spettacolare parabola che va dal Garante al Curatore, dall’Avvocato del popolo all’Avvocato civilista: insomma, da Giuseppe Conte a Silvio Demurtas (di questo passo, la nuova piattaforma per il voto online andrà ribattezzata: Carneade).
Da settimane Conte arranca infatti nella densa palude dei codicilli, mentre i grillini gli si sono già mezzi rivoltati contro - dubbiosi, divisi, in lotta fra loro, puristi, aziendalisti, governisti, movimentisti. Ad ogni riunione via Zoom s’adombra qualche decina di loro pronta a uscire. Al punto che, a un mese e mezzo dall’investitura, tra le pieghe delle ricostruzioni e dei retroscena, è comparsa tra i dubbi la parola magica: «Fregatura». Non è che la scelta di Grillo, quella operata pro Conte dopo essere planato all’Hotel Forum, vestito da Yuri Gagarin, una domenica di fine febbraio, è in realtà una fregatura? Interessante ipotesi. Certo, anche adesso che Conte incontra Enrico Letta anziché Donald Trump, non è in discussione la sua capacità di trasformare in oro le fregature: lo stesso ingresso in politica, da premier, nacque abbastanza per caso, dopo l’ipotesi Guido Sapelli nel maggio 2018; essendo segnato dal rischio della fregatura sin da quando accanto si trovò due vicepremier ben più forti di lui. Ma la difficoltà è così marcata che neppure Conte, pur leguleio scafato e allenato da 33 mesi di governo hard, prima con la Lega, poi con la pandemia, pare in grado di venirne fuori.
Scarsa attitudine alla leadership? Il compito, per certi versi, somiglia abbastanza a quell’altro, anche negli esiti: chiamato a fare il premier avendo zero esperienza politica, adesso Conte lavora a fare il capo di un partito non avendo mai militato in un partito - ai Cinque Stelle ancora nemmeno è iscritto. E, mentre tra una inchiesta sulle mascherine e una sulle zone rosse, vengono fuori i limiti del suo governare, si comincia a intravedere che l’Avvocato del popolo affronta la questione dei Cinque Stelle regolandosi come fece coi Dpcm. Allo stesso modo con il quale giusto un anno fa proclamava la regola dell’attività fisica nei pressi dell’abitazione senza stabilire la metratura di quel «nei pressi» (cosicché libertà di movimento e multe variavano da zona a zona), ora Conte si inserisce con quel piglio nella complessa questione dei due mandati: facendo capire che bisogna mantenere la regola voluta da Casaleggio senior e ribadita ora da Grillo ma che contemporaneamente bisogna superarla con delle eccezioni (variabili, anche qui, da zona a zona). Nessuna voglia di assumersi la responsabilità di scegliere. «Non chiedete a me, sono l’ultimo arrivato», ha proclamato con prudenza, tagliando così il nodo dei 450 mila euro che Casaleggio pretende dai parlamentari entro il 22 aprile, minacciando un fosco addio sarà. Precisamente l’atteggiamento che si attende da un leader: io non c’ero, e se c’ero dormivo. Di conseguenza, l’idea del partito modello Ciudadanos - con ritorno in auge dei Meet up - che ha in mente l’ex premier resta abbastanza sullo sfondo, il dibattito non si alza di un metro, e resta incollato raso terra a questioni come denari, simboli, correnti, mandati.
Del resto in un movimento in cui troppi sono i figli che evocano padri - da Casalino a Di Battista, allo stesso Luigi Di Maio - l’assenza di un leader pesa come un macigno. E, dopo anni passati a teorizzare e costruire un partito di «uno vale uno», adesso esplode la tragicommedia di burattini in cerca di burattinai. Mentre chi fino a poco fa smentiva di esserlo, ora lo rivendica. A partire da Davide Casaleggio, che fino a poco fa si dipingeva come un mero fornitore di servizi («svolgo solo un ruolo di supporto gratuito, sono uno dei tanti attivisti volontari») e adesso va in televisione a citare Andreotti e tuonare contro i parlamentari che «mandano in difficoltà finanziaria Rousseau per mettere sul tavolo la questione del terzo mandato», ossia vogliono distruggere il progetto politico perché sono attaccati alle poltrone. A criticare questa svolta è, peraltro, Marco Travaglio, direttore del Fatto, consigliori M5S e ipercontiano, a sua volta protagonista di una spettacolare svolta: per attaccare Casaleggio brandisce infatti, pari pari, gli argomenti utilizzati anni fa da chi metteva in luce le opacità del sistema grillino. In generale, assistiamo del resto a spettacolari inversioni di ruoli. Beppe Grillo, il cofondatore e garante, adesso anche per comodità si limita a una funzione di influencer, abbastanza terzista, quasi esclusivamente focalizzato sulle questioni ambientaliste e, alla fine, come capitato di recente, schierato più sulla linea del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani che non su quella M5S. Casaleggio, da fornitore, s’è mutato in quasi leader politico, arrivando persino a pubblicare il manifesto Controvento sul sito della Rousseau, per «definire con trasparenza lo spazio di azione attraverso il quale poter esercitare pienamente quel ruolo di garanzia della partecipazione attiva dei cittadini al centro del modello di democrazia digitale rappresentato dall’ecosistema Rousseau»: poi certo, non emana una stilla di calore neanche così, ma c’è un limite persino alle metamorfosi. Poi c’è Luigi Di Maio, ex capo politico, sempre più murato dietro ruoli governativi: ministro per la terza volta in tre governi di diversa composizione, nel mezzo della crisi del Conte 2 era in trasferta diplomatica negli Emirati Arabi (prima di Renzi); nel mezzo della guerra tra Rousseau e Movimento se ne è andato negli Stati Uniti a incontrare il segretario di Stato Blinken (primo ministro degli Esteri a farlo) e, mentre sui vari social sibilavano come spade i ricordi incrociati di Casaleggio senior, lui placido postava fotografie da Washington.
Va da sé che con questo clima la cosiddetta rifondazione dei Cinque Stelle fatichi anche solo a essere immaginata. C’è l’idea di tornare ai Meet up, fare un partito dei cittadini improntato al liberalismo europeo, di tanto in tanto come meteore compaiono questioni politiche tipo «le nuove stelle», vale a dire i nuovi temi centrali, l’idea di un radicamento territoriale, una sede romana, una scuola politica modello Frattocchie. Ma si tratta di faccende che non hanno il tempo di crescere, risucchiate come in un buco nero dal guazzabuglio che le circonda. Si prenda ad esempio la eccitante questione del simbolo, abbastanza stratificata: secondo l’ultimo bilancio dell’Associaizone di Grillo (quella del 2012) è sostanzialmente dato in uso all’Associazione Rousseau; ma esiste un contenzioso anche su questo, a Genova, che rimetterebbe tutto in discussione. Oppure la magnifica questione della reggenza. Capo pro tempore sarebbe Vito Crimi, come lo è stato sin da quando Di Maio ha lasciato la carica di capo politico, ormai quindici mesi fa. Senonché, a seguito delle decisioni prese durante gli Stati generali, a metà febbraio il Movimento ha votato una modifica allo Statuto secondo la quale, al posto del capo politico, ci sarà un comitato direttivo, composto da cinque persone. La cui elezione è congelata, in attesa della rifondazione contiana, portata avanti da un leader in pectore, che potrebbe essere confermato solo da un voto su Rousseau. E allora chi comanda? Secondo Grillo, Crimi, perché è «impensabile che il movimento resti privo di rappresentanza per tutto il tempo occorrente per portare a termine la procedura di nomina». Secondo Casaleggio, invece, no. E secondo il tribunale di Cagliari, neppure: al ricorso di una espulsa, la consigliera regionale Carla Cuccu, ha infatti risposto nominando un legale rappresentante, l’avvocato Demurtas.
C’è, come sempre, il caos. Ma ora c’è una novità. Ciò che è sempre stato unito sembra sul punto di dividersi. E malamente. Il cuore tecnico-politico del Movimento cinque stelle, dopo la morte di Gianroberto, è infatti la triade Casaleggio-Grillo-Di Maio (con Conte in scena attraverso quest’ultimo). Quest’asse, che portò alla vittoria del 2018, è sul punto di esplodere: cosa accadrà dopo? L’ultima volta che successe una cosa del genere, era l’epoca dell’Italia dei valori. Il distacco dalla Casaleggio Associati, tempo un paio d’anni, costò ad Antonio Di Pietro la chiusura della sua esperienza politica, con l’Idv che da barricadera è finita ad essere, nell’immaginario, il partito delle poltrone e dei voltagabbana, secondo un ventaglio di accuse simile a quello che oggi Casaleggio jr. rivolge ai Cinque stelle che non gli pagano («volete il terzo mandato»). Certo troppe cose sono diverse. Eppure la presenza di Di Pietro tra i pochi ammessi, insieme a Grillo (e Dibba), a ricordare la figura di Gianroberto nelle celebrazioni del Sum05, dice quanto poco questa storia si sia spostata da se stessa, in tutto questo tempo.
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