elezioni amministrative
Da Roma a Napoli, alla Calabria, ecco i dem costretti a giocare di rimessa, in cerca di una coalizione. Per il timore di restare senza interlocutori, inseguono Cinque stelle, Articoli 1, movimenti. E si fanno imporre i candidati. Ecco la nuova subalternità, travestita da «vocazione maggioritaria»
di Susanna Turco
A Napoli, dove non manca il senso pratico, lo chiamano «il subappalto» e funziona così: potrei avviare le macchine e decidere chi candidare, ma preferisco che a dirigere il gioco sia qualcun altro. Potrei guidare, ma mi faccio guidare. È l’ultima, post bettiniana, tendenza del Pd: all’epoca di Nicola Zingaretti si chiamava subalternità, nell’epoca di Enrico Letta la si può definire una subalternità travestita da «vocazione maggioritaria». Una nuova interpretazione dell’idea originaria (matrice Walter Veltroni, in questi giorni assai evocato), citata pure da Letta nel suo discorso di insediamento: dove però nei fatti il miraggio del «campo largo» diventa, quasi per un riflesso involontario (il timore di trovarsi scoperto a sinistra), la spasmodica rincorsa dei Cinque stelle e/o della sinistra-sinistra e/o di altre realtà civico-movimentiste, opzioni che si rivelano poi spesso concrete quanto l’azione di stringere in mano bolle di sapone.
Così, se all’epoca di Zingaretti la questione era soprattutto agganciare Giuseppe Conte, e la pratica soprattutto in mano a Goffredo Bettini (ora scomparso dalle cronache), adesso, in una fase nella quale i margini di manovra dentro l’attività del governo sono abbastanza scarsi, la meccanica si scarica soprattutto nelle competizioni per le amministrative d’autunno, e la questione è in mano, oltreché a Francesco Boccia che ha in mano gli Enti locali, al vicesegretario Peppe Provenzano, che Letta ha di fatto delegato a destrutturare e ristrutturare (cercando di allargarla) la sinistra del partito. Area che intanto pullula di agitazione, tra la consolidata corrente di Andrea Orlando (che ha mezzo ricucito, ma non del tutto, col suo ex protégé) e la nuova nata (Prossima) ad opera di Marco Furfaro e degli altri zingarettiani rimasti senza Zingaretti. Per non parlare delle realtà che si muovono appena fuori dai dem, come quella di Roberto Speranza (Leu) e di Elly Schlein a Bologna.
Cambiano gli uomini, cambia meno il risultato. Ipotesi di lavoro: anatomia di una subalternità. A Roma, a Napoli, in Calabria, ma anche a Torino, non c’è un caso nel quale il Pd abbia fatto da traino, abbia in qualche modo imposto un suo candidato sollecitando il centrosinistra a seguirlo. Voleva portare Roberto Fico a correre a Napoli, si ritrova Gaetano Manfredi, voleva lanciare a Roma Nicola Zingaretti, si ritrova Virginia Raggi e Roberto Gualtieri, voleva fare l’alleanza ovunque, si ritrova a raccogliere gli spiccioli di realtà - Articolo 1, Sinistra Italiana, sardine e anche gli stessi Cinque stelle - assai più esigue di una volta. A inseguire i fantasmi, in qualche caso. Fa eccezione giusto Bologna, dove il candidato è Matteo Lepore e la sinistra-sinistra sfiora il venti per cento, con però altri limiti circa l’efficacia della futura coalizione, che tutto sembra avere tranne la scintilla del nuovo. Per il resto il Pd, o si è fatto trainare, o ha cercato, tardivamente, di riproporre la soluzione autonoma, quella iniziale, ma mesi dopo.
Gli ultimi clamorosi casi sono stati quelli di Napoli e della Calabria, dopo quello originario di Roma, dove proprio per stare dietro ai Cinque stelle il Pd ha finito per presentare (indebolito) lo stesso Roberto Gualtieri che era pronto a scendere in campo già a febbraio, ci ha provato prima delle dimissioni di Zingaretti dalla segreteria del partito, ci ha riprovato a fine marzo e adesso, finalmente ufficializzato, è costretto a una tanto improbabile quanto scontata corsa alle primarie (vedasi la fotografia insieme coi suoi competitor), mentre Raggi è già in piena campagna elettorale.
Ah già, la campagna elettorale. Quando in Calabria, a fine gennaio, in assenza di altri competitor ufficiali, è sceso in campo il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, il Pd aveva già deciso all’unanimità di candidare Nicola Irto, 39 anni, recordman di preferenze, esperienza sul campo e faccia pulita. Ma l’ufficializzazione non è mai arrivata e, dopo mesi di tira e molla (mesi di campagna elettorale per Dema), nei quali i vari pezzi della sinistra a cavallo del Pd (in loco, ad esempio, Nico Stumpo di Articolo 1 e l’ex diessino Carlo Guccione) hanno temporeggiato, lunedì Irto ha annunciato con un’intervista esclusiva all’Espresso di volersi ritirare , considerando letali la perdita di tempo e i meccanismi correntizi che vi stanno dietro. La notizia della rinuncia ha provocato trasversali reazioni di protesta, dentro al Pd, di una tale ampiezza soprattutto tra i giovani dirigenti meridionali (tra i più accesi, l’europarlamentare Pina Picierno), da far pensare a una prossima frattura di tipo generazionale, nel partito. Ed ecco comunque che in breve, dal caos ha fatto capolino come ipotesi un nome già affiorato in gennaio, proposto dalle sardine, per tornare in circolazione in questi giorni. Una figura di rinnovamento: quella del professore e già parlamentare del Pci Enzo Ciconte, 75 anni, da trenta a Roma. Prima, per dire della confusione, l’ultimo atto vagamente ordinato della costruzione di un’alleanza era stata la proposta della grillina Dalila Nesci di fare le primarie con il Pd in Calabria: candidatura, la sua, però mai validata da Conte e anzi sotterraneamente osteggiata da altri due grillini calabresi, anche loro aspiranti candidati (il senatore Carmelo Massimo Misiti e la deputata Anna Laura Orrico), in un partito che tra diaspore e delusioni i sondaggi locali danno ora al 3 per cento.
In tutto ciò, come è giusto, De Magistris ha guadagnato via via terreno, tra vani corteggiamenti dem e grillini (ha sempre detto no alle primarie). Ed è a tal punto incombente che, in ultimo, circola l’avvelenata voce che esista una sorta di scambio: Napoli contro Calabria. Vale a dire: un campo più libero all’ex pm in Calabria, con una candidatura che non sia di troppo disturbo; un campo più libero a Napoli al candidato del centrosinistra. Tutti sanno, del resto, che un grosso ostacolo al cammino elettorale di Gaetano Manfredi è proprio il nome di Alessandra Clemente, candidata di Dema con una storia di famiglia simbolica per la città. L’ipotesi inverificabile che esista uno scambio vale soprattutto per raccontare il clima: ci sarebbe un Pd che rinuncia alla Calabria per mettere a Napoli un candidato che, in teoria, è un Pd che piace ai Cinque stelle ma che forse, in pratica, è l’inverso.
Ecco, la prospettiva della cosiddetta vocazione maggioritaria versione Letta: l’ex rettore della Federico II, presunto latore del famoso patto a tre per Napoli (Pd-M5s-Leu) e per questo salutato come quadratura del cerchio, promessa di future organiche alleanze, lui, è pacificamente considerato in città un contiano (che piace a Vincenzo De Luca). Ciò, almeno dai tempi in cui l’avvocato del popolo, allora premier, lo fece ministro dell’Università, sdoppiando il dicastero dopo l’uscita di scena di Lorenzo Fioramonti: all’epoca sembrava trattarsi di una divisione in quote tra M5S (Lucia Azzollina) e Pd (Manfredi appunto, il cui fratello, Massimiliano, milita in effetti nelle file dem); adesso, invece, viene in evidenza quanto il suo nome fosse legato a quello di Conte. Le vicende di questi giorni lo chiariscono ulteriormente. Maturata, dopo un primo no, tra il 26 e il 27 maggio, la candidatura di Manfredi ha avuto il via libera finale in una telefonata proprio con l’Avvocato del popolo, ancor prima che l’ex rettore parlasse con Letta: il “patto a tre” ha insomma per lo meno un primus inter pares, come testimoniano persino gli orari e i toni dei post di annuncio su Facebook (Conte alle 16.30, Letta alle 20.45).
L’accelerazione finale, peraltro, ha impedito che emergesse la candidatura dell’ex ministro del Pd Enzo Amendola: il suo nome, tra i papabili da sempre, senza farsi mai ufficiale è divenuto una possibilità molto concreta nei giorni di stallo con Manfredi e, come abbiamo ricostruito, aveva avuto un primo sì sia da De Luca che da Luigi Di Maio. Poi, però si è chiuso sull’ex rettore, in nome dell’allargamento dell’alleanza. Risultato: ancor prima della riunione ufficiale per il via libera sul nome, il M5S si è spaccato. Il gruppo dei Cinque stelle locali, guidato da Matteo Brambilla, già candidato sindaco e ora capogruppo in comune, ha annunciato battaglia sull’uso del simbolo, al grido: i Cinque stelle qui a Napoli siamo noi, non quelli che fanno accordi a Roma.
Insomma guai all’orizzonte anche qui: del resto i Cinque stelle che, come si vede dai sondaggi, non hanno di certo più le percentuali lusinghiere del 2018, in compenso conservano intatta la propensione al caos che è per così dire strutturale, coessenziale alla natura del partito fondato da Gianroberto Casaleggio. Un elemento che rende assai difficile stringere alleanze, anche solo per mancanza di un interlocutore unico, e che, nella generale perdita di tempo che ne consegue, ha, come effetto, quello di dare fiato e spazio a realtà alternative. A sinistra, e talvolta anche a destra del Pd: oltre al citato De Magistris in Calabria, c’è ad esempio a Roma Carlo Calenda, a Bologna la renziana Isabella Conti, ora impegnata nelle primarie contro Lepore. Ma la rincorsa ai pezzi che sono fuori dal Pd, specie in un’epoca nella quale le realtà della sinistra-sinistra non sono più così consistenti, e il M5S in evidente declino, rischia di costare tanto. Nell’attesa di una sterzata lettiana, al Nazareno c’è chi comincia a chiedersi quanto.