Enrico Letta guarda al profilo di sinistra del suo Pd, ma i Cinque stelle sono in pieno caos. I due Mattei (Renzi e Salvini) fanno prove tecniche di manovre per il Quirinale. E c’è il fantasma di un nuovo ribaltone. Ecco cosa resta di una battaglia di civiltà

Avrà il sì di Ciampolillo e sembra avviato sul binario morto. Già così, a prima occhiata, il ddl Zan contro l’omotransfobia presenta pericolose somiglianze con il Conte ter: sembra cioè qualcosa che non si farà mai. Primo indizio: ha appunto il voto del senatore pugliese, ex M5S, che a gennaio saltò fuori in extremis, in sincrono col socialista Riccardo Nencini, da sotto un banco dell’Aula di Palazzo Madama per dare la sua fiducia all’Avvocato del popolo, l’ultima volta ch’egli la chiese da premier. «Renzi non vota #DdlZan? Voto io! Al Senato non ci sono i numeri? Ancora una volta per raggiungere un risultato che aiuti le persone, il voto lo metto io al posto suo», twittava felice Ciampolillo l’altro giorno, proprio mentre al Senato si certificava l’assenza di un accordo nella maggioranza, al termine del braccio di ferro tra il centrodestra a trazione salvinian-renziana (alba di una nuova maggioranza?), favorevole a ulteriori modifiche al testo, e il centrosinistra Pd-M5S-Leu, che vuol tenerlo così come è.

 

Salvo spettacolari iniziative che devono ancora vedere la luce, il ddl è dunque a grande rischio. Il testo, che andrà in aula martedì 13 dopo l’approvazione alla Camera del 4 novembre 2020 a scrutinio segreto (265 sì, 193 no, un astenuto), sette mesi di guerra e 170 audizioni in commissione Giustizia a Palazzo Madama, per mettersi in salvo dovrebbe restare così come è: lievi modifiche lo costringerebbero a una terza, rischiosissima lettura a Montecitorio; significative modifiche (anche visto lo zampino renziano) spingerebbero gli stessi dem ad abbatterlo come una mucca pazza. Tuttavia, anche vista la stretta forbice tra favorevoli (135-145) e contrari (145-155) al ddl - e coi 17 renziani determinanti - che nei prossimi giorni le votazioni in Aula, palesi e segrete, possano lasciare del tutto intoccato il testo appare la più improbabile tra le ipotesi

 

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Slittando quindi dal suo sacrosanto senso originario (diventare una legge per combattere le discriminazioni e la violenza che ne consegue, puntellare il diritto alle diversità di coesistere nel modo più pacifico possibile), è in effetti già passato a segnalare tutt’altre cose. Il che forse spiega il paradossale scarso afflato che lo anima: in un Parlamento che già non brilla per la capacità di dibattiti appassionanti, di rado si è visto sin qui un discorso altrettanto poco coinvolgente, su un tema in sé tutt’altro che “di Palazzo” e che anzi riguarda, spesso dolorosamente, la vita delle persone.


E invece, alla fine, il ddl Zan finisce per fare da spartiacque alla legislatura: rivela, segnala, fotografa il panorama politico e gli equilibri che si vanno disegnando.

 

Il commento
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Il ddl Zan svela anzitutto cosa ne è della maggioranza nell’esatto momento in cui questa si occupa di questioni che esulino dalla - per così dire - giurisdizione del presidente del Consiglio Mario Draghi: si piomba nel caos. Lo si vede nel testo contro l’omotransfobia così come nella difficoltà di affrontare le nomine dei quattro consiglieri del cda Rai, non a caso fatte prudentemente slittare. Con il Pd di Enrico Letta come accerchiato, i 5 Stelle dilaniati dalle faide. Con la Lega che tenta di guidare il gioco e  Italia viva intenta a fare da ago della bilancia: con cioè i due Mattei che fanno da specchio alle rispettive ambizioni, incrociano di nuovo le tattiche, secondo capitolo dopo l’estate 2019 quando uno fece cadere il governo giallo-verde di cui era vicepremier, l’altro si fece alfiere di una alleanza Pd-M5S che fino a lì aveva definito impensabile.

 

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Ecco, adesso che i rispettivi disegni si intersecano (e visti i progetti neocentristi dell’ex premier non dovrebbe essere l’ultima volta), Renzi e Salvini, cercando un percorso comune di modifica sul ddl Zan  (che Iv alla Camera aveva votato, dopo lunga mediazione col Pd) fanno in realtà le prove generali per le prossime elezioni del capo dello Stato, febbraio 2022. Laddove, secondo i calcoli, la somma dei 440 parlamentari di centrodestra, più la quota di delegati regionali, supererebbe il 46 per cento della platea necessaria all’elezione del successore di Sergio Mattarella: sommandosi il 4,3 per cento di 45 parlamentari di Iv, il totale andrebbe poco sopra la soglia della maggioranza assoluta (quella sufficiente dal quarto scrutinio in poi). Si tratterebbe di un asse che nel suo insieme, visto il peso, punta a condizionare il dibattito, prima ancora che determinarlo. Strategia in cui come s’è visto eccelle Matteo Renzi. Uno che sull’alleanza col nemico (Silvo Berlusconi, all’epoca), anche giocando di pretattica in vista dell’elezione al Quirinale, ha già costruito la propria ascesa al governo. Uno che, per dirla con la cruda metafora di chi ci lavorò a Palazzo Chigi, «se deve sparare un punto lontano ha problemi di mira, ma nel lavoro di coltello è bravissimo». Pessimo stratega, ma grandissimo tattico.


Lo sa meglio di chiunque Enrico Letta il quale – non volendo essere più lo stesso Enrico dello #staisereno - proprio sopra al ddl Zan sta tentando di disegnare il profilo identitario del suo Pd, per liberarsi dalla tenaglia che lo stringe: da un lato la Lega che fa politica anche dentro il governo di tutti, dall’altro il caos (non si sa quanto momentaneo) degli alleati considerati più preziosi, i 5 Stelle, che gli stanno franando davanti.


La battaglia su ddl Zan svela anche molto di lui, segretario i cui primi 120 giorni sembrano pesanti come anni. Cosa è, e cosa vorrebbe essere. Notevole è in particolare proprio il piano valoriale: nella difesa del ddl Zan, senza modifiche, Letta punta a incarnare il punto in cui il sentimento anti-renziano – tipico dell’elettorato dem – si congiunge con l’idea di un Pd decisamente di sinistra. Un profilo, se non guevariano (non esageriamo), da guerrigliero antirenziano dei diritti, che Enrico Letta sta cercando di affermare in tutti i modi, senza finora riuscirci più di tanto: dalle proposte politiche come lo ius soli, il voto ai sedicenni, una idea di patrimoniale degna - anche quanto a successo - della bertinottiana «anche i ricchi piangano», alla costruzione delle Agorà come allargamento a sinistra dello stesso Pd, fino alla ricerca di un confronto con giornalisti, scrittori, editori come quello svolto in settimana al Nazareno, per trovare le parole. «Dobbiamo ripensare a cosa vuol dire sinistra, costruire una moderna proposta democratica, che parli ai giovani», ha detto nella riunione di cervelli finalizzata a sostanziare questo necessario «grande sforzo intellettuale». Del resto il giorno prima, dialogando con Concita de Gregorio a “In Onda”, Letta aveva ricostruito le sue ascendenze genealogiche quasi gramsciane («Il figlio di sua sorella ha sposato la zia della mia mamma»). Con grande (e sottaciuto) fastidio del mondo che è, o si considera suo erede, ha in più di un’occasione sottolineato l’omonimia con Enrico Berlinguer, l’ultima volta nell’anniversario della morte («L’#11giugno1984 rimane nella memoria collettiva di tutti gli italiani. Il giorno in cui si spense a Padova un segretario che si chiamava #Enrico», ha twittato l’altro Enrico segretario).

 

Diritti
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Il tutto quasi ad aggiustare il tiro del posizionamento originario, quello che gli fa dire oggi: «Sono arrivato con un profilo antico, di uno che non incarnava la sinistra dura e pura ma il moderatismo prodiano degli anni ’90». Profilo portato avanti pure nella sua ascesa al governo: giunto a chiedere la fiducia alle Camere nell’aprile 2013, Letta nel suo discorso di insediamento non parlò di unioni civili, minoranze, diritti Lgbtqi+ in genere. All’epoca gli fu rimproverato: e dove sta la sinistra? Lo orientava in quel momento non solo l’origine, ma anche l’alleanza centrista nell’esecutivo con Alfano e, di conseguenza, quella ricerca dell’unanimità che ora, otto anni dopo, lo stesso Letta tenta di spezzare, esorcizzare teorizzando l’importanza del conflitto in pieno governo Draghi. Reinventandosi progressista radicale, pronto al muro contro muro.


Tutti sforzi, questi, che tendono a perdersi nella vaghezza di un’alleanza di centrosinistra in affanno come mai. Potendo contare su gruppi parlamentari appena più addomesticati rispetto all’epoca zingarettiana, ma che sono sempre gli stessi composti da Renzi nel 2018, Letta ha ereditato da Zingaretti anche la stessa impostazione subalterna rispetto ai 5 Stelle: è però adesso gravato dal fatto che i preziosi alleati sono in piena transizione verso un futuro eventuale. Formalmente compatti sul ddl Zan, sostanzialmente ancora in ballo tra Giuseppe Conte, Beppe Grillo e una voragine di nulla in mezzo, già persi a decine nei gruppi misti di Camera e Senato, i grillini sono peraltro, anche sul tema, tutt’altro che un punto di leva sicuro. Non lo furono nemmeno ai tempi della discussione sulle unioni civili, quando proprio al Senato fecero venir meno il loro appoggio alla maggioranza dell’epoca, costringendo Renzi, premier, ad accettare la condizione posta dall’Ncd. Quella cancellazione della stepchild adoption che fu il salatissimo prezzo per l’approvazione della legge.


Una mediazione che ora proprio Renzi sventola come precedente virtuoso: fingendo di non sapere che la situazione è un’altra e che, per dirne una, lo stesso mondo Lgbtqi+ ha fatto sapere in ogni modo che i risultati della mediazione Lega-Iv sono nella sostanza irricevibili. Enrico Letta, per suo conto, rifiuta stavolta di seguire il predecessore alla guida del Pd, nella battaglia che ha voluto come la più identitaria della sua gestione. Lasciato solo, in questo, anche dai pezzi grossi del Pd. I quali, per dirla in metafora con le parole usate martedì da Dario Franceschini in visita a Napoli, sono «impegnati a parlare di Capodimonte». Capodimonte, non Zan. Mentre i Ciampolillo, di nuovo, scorrazzano.

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