Manovre di palazzo
Beppe Grillo è il miglior alleato di Mario Draghi per far durare il governo (e sognare il Quirinale)
Ripetute telefonate e cenni d’intesa: come nasce la sintonia tra il premier e il fondatore. Ancora oggi, mentre Giuseppe Conte prende la guida del Movimento e prepara la sua battaglia contro l’esecutivo, il comico rappresenta la garanzia di stabilità
Mario Draghi e Beppe Grillo sono molto diversi e molto distanti. Questo li rende una coppia perfetta per la politica. Non c’è ideologia. Non c’è pregresso. Non c’è empatia. C’è soltanto una reciproca convenienza. Hanno bisogno di tempo e ne trascorrono assieme un po’. Un paio di anni. Il tempo di riprendersi e prendersi delle cose. Grillo deve riprendersi il controllo dei Cinque stelle o almeno di un lembo di ciò che ne resta e riprendere sé stesso dopo le sbandate per l’inchiesta per stupro che coinvolge il figlio Ciro. Draghi deve prendersi la durata del governo e della legislatura con scadenza fissata a marzo 2023. E poi s’è detto, si è smentito, si dirà ancora e forse non si smentirà più: l’apporto del fondatore Grillo è necessario per preparare il prossimo febbraio la probabile ascesa al Quirinale del premier Draghi dopo il settennato di Sergio Mattarella e nel mentre trasferire a palazzo Chigi un ministro non di partito.
Postilla: molto diversi e molto distanti e pure molto uniti da Giuseppe Conte. Il già avvocato del popolo non li adora. O peggio. Sì, peggio.
LE ORIGINI DEL DUO
Draghi è il più politico dei tecnici o il più tecnico dei politici. Questo non s’è capito. Però Draghi fa politica. E non è una macchia sul santino che ogni giorno nei palazzi romani si infilano nel taschino per denunciarne la devozione. Quando c’era da fare il governo durante le consultazioni, cioè comporre la struttura per reggere una maggioranza di gente che si è odiata per davvero, Draghi si è concentrato subito sui 5 Stelle. I parlamentari più numerosi, più scettici e soprattutto più litigiosi. Il ministro Luigi Di Maio aveva già aderito. Invece Grillo era uno sconosciuto, ma era riconosciuto come l’autorità morale dei 5 Stelle che va interpellata per avviare un processo di conversione. Peraltro con una certa fretta. Così Roberto Fico, il presidente della Camera, un azionista di minoranza dei Cinque stelle, l’esploratore indicato dal Colle, ha fornito a Draghi il contatto di Grillo. In quel momento, già accusato di alto tradimento dai seguaci di Conte, spodestati dopo il fallimento dell’operazione Lello Ciampolillo, il senatore fugace simbolo dei «responsabili» altrettanto fugaci, Fico ha suggerito la più classica delle soluzioni: parlare e trattare.
Draghi ha illustrato il suo programma, le sue priorità e i suoi ministeri. Il ministro Di Maio, il suo consigliere Pietro Dettori, il viceministro Stefano Buffagni e alcuni funzionari dello Stato apprezzati dal Quirinale hanno allestito l’iconico scambio. E Grillo ha scelto: la transizione ecologica. Un ministero di spese, di miliardi, non milioni di euro. L’ex presidente della Banca centrale europea non l’ha istituito per Grillo, però ha lasciato che apparisse un’intuizione del comico, la vocazione verde, la vicina utopia dopo la pandemia. E Grillo ha scelto anche il ministro: Roberto Cingolani di Leonardo. Un capolavoro: «Mi aspettavo il banchiere di Dio, invece è un grillino», disse il comico.
Sin dal principio, e la memoria supporta, Draghi ha considerato Grillo un interlocutore essenziale dei 5 Stelle e il ministro Di Maio il suo più rilevante rappresentante presso il governo. Spesso si sentono al telefono e spesso è Grillo che squilla. Si informa, aggiorna e agisce sui parlamentari. Non esistono né mediatori né sensali.
Il ministro Stefano Patuanelli riveste la stessa funzione che fu di Teresa Bellanova di Italia viva nel governo giallorosso (e tra l’altro a Patuanelli gli è capitata l’Agricoltura come a Bellanova): precisa, sbraita, fa trapelare, rivendica e ostenta sui giornali, ma alla fine, quando partecipa agli incontri col premier Draghi con la grisaglia di guida della delegazione dei M5s, a stento si nota la sua presenza. Anzi, è sopraffatto da Di Maio. Il ministro degli Esteri ha iniziato a comandare nel partito quando ha annunciato le sue dimissioni da capo. Ha consuetudine con Draghi e con gli amici di Draghi come Paolo Scaroni, l’ex amministratore delegato di Eni e attuale presidente del Milan. I quattro ministri dei 5 Stelle sono divisi in due gruppi: Patuanelli e Federico D’Incà (Rapporti col Parlamento) sono più fedeli a Conte; Di Maio e Fabiana Dadone (Politiche giovanili) sono più sensibili a Grillo.
Con cinica strategia politica, ecco che scalpita la politica, Draghi ha interloquito sempre con Di Maio e Grillo e ha ignorato Conte. E fin qui non l’ha ignorato per perfidia o antipatia, ma perché Conte non era collocato. Era fuori ruolo. Non ancora capo. Un quasi capo. Ne è prova definitiva la chiamata di Grillo a Draghi che ha sbloccato la riforma della giustizia in Consiglio dei ministri e poi il governo neanche ha lasciato posare la tensione dopo la nomina dei vertici del servizio pubblico Rai.
Adesso che la tregua a fucili spianati ha prodotto l’accordo fra Conte e Grillo, il premier deve impostare con attenzione la convivenza col suo predecessore.
SEMESTRE BARAONDA
A differenza di Grillo e Draghi, Conte non ha spazio. E non ha tempo. Deve riscuotere il consenso che gli attribuiscono i sondaggi e i vaticini di Rocco Casalino. L’unico modo è votare presto. E fare baccano subito. Opposizione al governo. Come ha insegnato Matteo Renzi. Il semestre bianco che parte in agosto e porta al voto per la presidenza della Repubblica è l’occasione più comoda: si alza la voce senza alzare la posta. Il governo è intangibile perché Mattarella non può sciogliere le Camere e ci si diverte con le campagne di comunicazione.
Conte apprezza gli assembramenti dei parlamentari attorno a sé. Pregusta il potere delle liste: decide chi entra e chi non rientra.
Però sottovaluta un aspetto: i 235 parlamentari pentastellati - già ridotti di un terzo in tre anni e mezzo e terrorizzati dal taglio degli eletti - devono e vogliono concludere la legislatura. Per tanti la prima e di sicuro l’ultima. Finanche Patuanelli, il contiano più fiero, si è spaventato appena Conte ha minacciato la scissione. Ciascun parlamentare dei 5 Stelle si spaventa se si prospettano le urne. Il vuoto.
Per legittime aspirazioni, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni è il solo partito fuori dal governo e fuori dal patto 2023. Anche Matteo Salvini è rassegnato con la Lega impegnata nell’annessione di Forza Italia. Già fra qualche settimana, però, ci sarà il Movimento di Conte, una specie di partito monco, che proverà a riscrivere il calendario (oggi primo faccia a faccia a palazzo Chigi). E allora si ritorna a Grillo. Al suo essere stabilizzatore di maggioranza e di legislatura. Alle sue conversazioni con Draghi che si raccontano con grande prudenza e parsimonia. Col tono che si riserva alle questioni serie. In decomposizione dopo la gloria, comunque i 5 Stelle possono determinare il prossimo presidente della Repubblica.
Giuseppe Conte ha circa due terzi dei 75 senatori. Grillo oltre la metà dei 160 deputati. E dunque il fondatore, e la potestà va estesa a Di Maio e Fico, ha influenza su più di 100 grandi elettori che potranno ascoltare le sue raccomandazioni per il Quirinale mentre si introducono nel buio dei catafalchi. Mario Draghi o Draghi Mario. Va bene pure col nome puntato.