Nell’estate 1970 Saragat dà l’incarico ad Andreotti, ma il tentativo fallisce. Fu la Cia a decretare il no degli Usa ma, dopo che il leader Dc fece visita a Washington, cadde la riserva su di lui aprendogli le porte di Palazzo Chigi

L’11 luglio 1970 il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat diede l’incarico di formare un nuovo «governo organico quadripartito di centrosinistra» a Giulio Andreotti, che allora rivestiva l’incarico di capogruppo della Dc a Montecitorio. Andreotti aveva già alle spalle una lunga carriera parlamentare e come ministro, ma quella era la prima volta che, all’età di 51 anni, aveva la possibilità di diventare presidente del Consiglio.


Secondo la prassi accettò l’incarico con riserva, tentando di varare una maggioranza organica di centrosinistra con un programma riguardante la riforma dell’amministrazione pubblica, il problema abitativo e l’abbassamento del voto a 18 anni di età. Nel giro di consultazioni, però, incontrò su questi temi dei problemi apparentemente insormontabili con i socialdemocratici del Partito socialista unitario, ossia proprio con la forza politica del presidente Saragat che, in cambio del loro sostegno al governo, avanzarono ai socialisti la richiesta impossibile di rompere con i comunisti nelle giunte locali.


Andreotti, dunque, fu costretto a rinunciare e, il 25 luglio 1970, Saragat affidò un nuovo incarico a Emilio Colombo, il quale riuscì a diventare facilmente presidente del Consiglio dal momento che i socialdemocratici, questa volta, approvarono il documento programmatico senza battere ciglio. Colombo era stato indicato al secondo posto dopo Andreotti nelle preferenze dello Scudocrociato e apparteneva alla stessa corrente di Andreotti. Secondo la testimonianza diretta del diplomatico Manlio Brosio, allora segretario generale della Nato, il presidente Saragat gli aveva riferito di avere «una certa fiducia in Colombo: “È un prete di provincia, Andreotti è un prete di curia ed è peggio. Il primo crede a qualche cosa, il secondo a nulla”».


La soluzione di questa crisi di governo, se ci limitiamo a osservare il proscenio pubblico, aveva offerto una soluzione così enigmatica che pareva fatta apposta per alimentare la solita retorica sull’incomprensibilità della politica italiana e i suoi insopportabili bizantinismi che tanto piaceva agli osservatori esteri e agli “stranieri in patria” nostrani. Anche se, in questa circostanza, il passaggio di consegna tra le due candidature democristiane era stato accompagnato da un tragico fatto di sangue: il 22 luglio 1970, sullo sfondo della cosiddetta rivolta di Reggio Calabria, una bomba di matrice neofascista aveva fatto deragliare un treno a Gioia Tauro provocando sei morti e oltre una sessantina di feriti.


Tuttavia, se spostiamo la tenda quanto basta per sbirciare dietro le quinte, la situazione si complica all’improvviso, anche se, per compiere questo semplice atto, è stato necessario attendere quasi cinquant’anni e le ricerche degli storici Umberto Gentiloni Silveri, Lucrezia Cominelli e Luigi Guarna.


Rispetto al luglio 1970, bisogna però fare un passo avanti di sei anni. Nell’agosto 1976, infatti, in occasione del dibattito parlamentare sul voto di fiducia al terzo governo Andreotti, che nasceva grazie all’astensione dei comunisti, l’ex capo del Sid Vito Miceli, nel frattempo divenuto deputato missino, gettò una nuova luce sugli autentici motivi che avevano portato al fallimento della candidatura di Andreotti nel luglio 1970. Il generale dichiarò, tra lo stupore generale, di avere espresso in passato un parere negativo sulla sua nomina a presidente del Consiglio in risposta a una sollecitazione ricevuta da Saragat in persona. Nel suo discorso Miceli definì il dirigente democristiano «un maestro di trame» e gli rimproverò una «disinvoltura eccessiva» con i comunisti, ergendosi a megafono di un’ideale società italiana finalmente stanca di essere gestita da «professionisti della politica» come lui.


Miceli aveva fondati motivi per essere risentito con Andreotti che, quando era ministro della Difesa, nel luglio 1974, lo aveva rimosso dal suo ruolo di capo del Sid, al quale lo aveva nominato, nell’ottobre 1970, il socialdemocratico Mario Tanassi. Con questa decisione Andreotti aveva costituito le premesse perché Miceli, non più ai vertici del servizio segreto militare, fosse tratto in arresto, già nell’ottobre 1974, con le accuse di falso ideologico e di avere cospirato contro lo Stato e, in seguito, venisse coinvolto anche nell’inchiesta sul golpe dell’Immacolata, ossia un tentativo di colpo di Stato promosso l’8 dicembre 1970 dall’aristocratico fascista Junio Valerio Borghese. Nelle intenzioni dei congiurati quel «colpo d’ordine» avrebbe dovuto prevedere persino la cattura del presidente della Repubblica Saragat, ormai giunto a fine mandato. Miceli finì sotto processo con l’accusa di favoreggiamento da cui sarebbe stato assolto nel luglio 1978, ma occorre notare che in quell’inchiesta l’accusa era stata esercitata dal Pubblico ministero Claudio Vitalone, notoriamente sodale di Andreotti.


Il riferimento polemico che Miceli aveva pronunciato in aula rimandava al tentativo abortito di Andreotti del luglio 1970: la sua denuncia suscitò ampie polemiche perché l’ex presidente Saragat si affrettò a negare di avergli mai richiesto un parere sul politico romano, ma l’ex capo del Sid tenne il punto invocando una commissione d’inchiesta. Anche gli uffici del Quirinale lo smentirono, ma Miceli, intervistato dal giornalista Luigi Bisignani, rispose di essere disposto a leggere in aula il suo «testo in nove righe del veto nei confronti dell’onorevole Andreotti» che si trovava conservato «in fascicoli segretissimi degli archivi del Sid».


Saragat in una intervista a Massimo Caprara sul Tempo illustrato, poi disconosciuta dall’interessato ma confermata dal giornale, si sarebbe spinto a dire che per «silurare Andreotti non aveva bisogno delle sollecitazioni dei servizi segreti, né del generale Miceli, del resto non ancora capo del Sid, che io dichiaro di non avere mai conosciuto, bastò la mia personale avversione». La precisazione difensiva di Saragat che Miceli allora non fosse ancora a capo del Sid è utile per datare l’episodio al 1970 perché nel luglio di quell’anno il generale rivestiva l’incarico di responsabile del servizio informativo dell’esercito (Sios) e sarebbe asceso alla direzione dei servizi militari soltanto nell’ottobre di quell’anno.


Alla luce di queste esplosive dichiarazioni, che rivelavano quanto Saragat avesse ancora il dente avvelenato per i fatti del luglio 1970 e per i rischi personali corsi con il tentato golpe Borghese nel dicembre successivo, la stampa si gettò sulla vicenda. Ad esempio, il giornalista Paolo Guzzanti scrisse sul quotidiano La Repubblica, il 26 agosto 1976, un informato articolo, “La vera storia del veto”, in cui raccontò che, in quel luglio 1970, la candidatura di Andreotti aveva suscitato l’ostilità di una parte della Cia. Infatti, il fascicolo preparato dal generale Miceli per Saragat sarebbe stato consegnato anche a James D. Clavio, “Army attaché” dell’ambasciata americana a Roma, che lo avrebbe integrato per poi passarlo a William Broe, incaricato della Cia in quegli anni per gli affari in Cile e in America meridionale e “Chief of the western hemisphere division” dal 1965 al 1972.

 

Infine, sarebbe ritornato nelle mani dell’italo-americano Carmel Offie, specialista sin dal 1944 di affari italiani, sodale e protettore del socialdemocratico Tanassi e patrocinatore, nell’ottobre 1970, della nomina di Miceli ai vertici del Sid, evidentemente promosso sul campo per i meriti acquisiti agli occhi degli statunitensi nel corso di quei delicati frangenti. Nell’articolo, Guzzanti sottolineava anche che, durante le sue prime consultazioni nel luglio 1970, Andreotti aveva compiuto un gesto che aveva «mandato in bestia tutto il fronte dell’anticomunismo italiano» perché si era intrattenuto per un’ora con la delegazione del Pci, dopo avere incontrato quella dei quattro partiti di governo del centrosinistra organico, come Saragat gli aveva prescritto di fare.


È utile rilevare che la versione ricostruita nell’inchiesta giornalistica del 1976 è risultata confermata dopo l’avvenuta desecretazione di un’importante informativa dell’ambasciatore statunitense a Roma Graham Martin, inviata al dipartimento di Stato il 7 agosto 1970, significativamente il giorno dopo l’insediamento del governo Colombo. Logicamente quel documento non poteva che tenere conto delle azioni e dei movimenti di intelligence avvenuti in Italia a luglio, quando la crisi di governo era ancora aperta e Andreotti in predicato di diventare presidente del Consiglio.

 

Nel dispaccio, l’ambasciatore Martin faceva cenno proprio «agli inusuali sforzi» compiuti negli ultimi tempi dal generale Miceli «per entrare in confidenza» con l’addetto militare a Roma Clavio, cui aveva mostrato tre lettere in cui si faceva riferimento a un colpo di Stato imminente promosso dal principe Borghese e previsto già per la seconda settimana di agosto. Nella circostanza, Miceli aveva voluto rassicurare Clavio sulla tenuta democratica delle Forze armate, garantita da lui e dal generale Enzo Marchesi, capo di Stato maggiore della Difesa, e aveva fatto ascoltare un nastro registrato, che gli aveva consegnato un collaboratore del deputato Antonio Cariglia, anche lui come Tanassi e Saragat socialdemocratico, in cui un politico italiano non meglio identificato parlava di un golpe da realizzarsi già nelle prime settimane di agosto.


Il dipartimento di Stato americano rispose il 10 agosto 1970 affermando di rimanere scettico «sui reali mezzi di sostentamento di un tentativo di colpo di Stato questa settimana», come se il rischio fosse ancora all’ordine del giorno e meritevole di essere seguito, affinché fosse scongiurato, day by day, come i fatti dell’8 dicembre seguente avrebbero ampiamente dimostrato. Questo secondo documento si concludeva affermando che il ministro della Difesa Tanassi e, tramite lui, il presidente Saragat, erano già stati informati di quanto stava accadendo in Italia nel luglio 1970, facendo dunque riferimento proprio alle due personalità che pochi giorni prima avevano bloccato il tentativo di Andreotti.


Secondo questa ricostruzione, dunque, il candidato Andreotti era stato sconfitto nel luglio 1970 su suggerimento di Tanassi che, intervenendo su Saragat, gli aveva fatto mancare improvvisamente il consenso dei socialdemocratici per rispondere alle pressioni giunte oltreoceano su indicazione del generale Miceli, come da egli stesso rivendicato in Parlamento nell’agosto 1976, come già il 27 agosto era anticipato dal quotidiano La Repubblica in un secondo articolo a firma di Guzzanti intitolato “Fu Nixon a bocciare Andreotti”.


Agli occhi del fronte interno politico-militare più fedele agli americani, formato dal trio Tanassi-Miceli-Saragat, la figura di Andreotti non era ancora in grado di garantire appieno la parte più oltranzista del fronte atlantico per due ragioni, solo apparentemente opposte: da un lato, a causa della sua precoce disponibilità ad aprire ai comunisti, dall’altro per i suoi rapporti troppo stretti, in virtù del lungo passato al ministero della Difesa, con quelle frange militari reazionarie mobilitate dal principe Borghese e con quegli ambienti della destra extraparlamentare neofascista che si erano messi in movimento proprio nel mese di luglio 1970 come denunciato dal generale Miceli nei suoi incontri con gli americani.


Nello stretto passaggio che lo aveva visto sconfitto, in cui si erano scontrati due «atlantismi concorrenti» meritevoli di ulteriori indagini, Andreotti dovette fare tesoro della lezione ricevuta. Prova ne sia che, per non sbagliare di nuovo, nell’agosto 1971, si recò in visita privata negli Stati Uniti chiedendo di potere rendere visita alle più alte cariche dell’amministrazione Nixon, tramite i canali ufficiali delle ambasciate.

 

Gli incontri richiesti non ebbero luogo, ma dagli incartamenti preparatori dei diplomatici affiorava una rinnovata attenzione nei riguardi di Andreotti, destinato a ricoprire «un ruolo di primo piano nella Dc e nella politica nazionale», e considerato «un politico da tenere in considerazione per il domani».


In tutta evidenza, infatti, l’oggi italiano era rappresentato da Colombo, visto dagli stessi statunitensi come «l’ultima possibilità» per salvaguardare una formula di centrosinistra ormai agonizzante, anche se, come notato dalla preveggente nota dell’ambasciatore Martin del 7 agosto 1970, «c’era una buona possibilità che un movimento verso il centro potesse comunque essere prodotto all’interno del processo democratico». Se Andreotti fosse riuscito a interpretare questa nuova linea di ritorno al centrismo entro un contesto democratico, il futuro sarebbe stato suo. In effetti, avvenne proprio così perché quell’agognato domani per lui sarebbe giunto prima del previsto, soltanto sei mesi dopo il viaggio americano, quando, per la prima volta, divenne presidente del Consiglio.