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Politica
gennaio, 2022

Silvio Berlusconi, per l’Italia e per la Ditta: 9 ragioni per diffidare di lui

L’editoriale del 7 gennaio del 1994 in cui il direttore dell’Espresso spiegava l’interesse dell’allora solo imprenditore per la politica: “Si candida al governo del Paese: leggi pro domo sua, sogni di gloria, finanza allegra. Il programma: uno Stato-azienda al servizio di un industriale a rischio”

È così. Più incontra ostacoli il suo progetto di mettere insieme i leader del centro-destra ancora sbandato, più Berlusconi prometeicamente si erge contro il Dio cattivo della sinistra. La solitudine lo eccita, i suoi obiettivi diventano iper-ambiziosi. Vuole la presidenza del Consiglio. Anche se Gianni Agnelli la trova ridicola, la prospettiva di un governo Berlusconi, pura fantascienza fino a poche settimane fa, si è ormai materializzata come il possibile grande evento - o la grande catastrofe - del 1994. Perciò va esaminata fino in fondo, senza pregiudizi.

 

1. Berlusconi scende in campo per difendere i suoi affari
Da tempo l’uomo di Arcore presenta il suo impegno diretto in politica come un immane sacrificio compiuto per il bene della comunità: «Spero di non dover bere l’amaro calice». Il 17 dicembre ha sentenziato che la sua è «una battaglia di civiltà e di libertà». Ma proprio dall’area che gli è tanto cara, quella liberal-democratica, si levano nette le smentite. Sul “Corriere della Sera” il politologo Angelo Panebianco gli ha ricordato che è inopportuno, per un imprenditore, «rappresentare politicamente interessi propri». L’ex direttore del Tg1, Nuccio Fava, gli ha obiettato che «la legittima preoccupazione di difendere i suoi interessi è «in contraddizione con la tutela di quelli generali». Su “La Stampa” l’ex ambasciatore Sergio Romano ha sostenuto addirittura che Berlusconi «sta trasformando la Fininvest in un partito politico».

 

Che il capo della Fininvest corra non per il Paese, ma per sé, è evidente a chiunque lo conosca. Ed è confermato dalla pratica selvaggia dell’auto elogio, dall’esaltazione delle qualità vere o supposte di Berlusconi: egli è una stella fissa, tutto ruota e deve ruotare intorno a lui. Su “La Stampa’’, il 18 dicembre, Berlusconi ha preso penna per negare che il suo sia, secondo la felice definizione di Romano, un partito-azienda. Ma la realtà non può essere occultata. Già “L’Espresso” (n. 46) documentò che la nascente struttura dei club Forza Italia era tutta formata da dirigenti Fininvest.

 

E alla vigilia di Natale è stato il più importante giornale di Berlusconi, “Panorama”, ad avallare clamorosamente la tesi del partito-azienda: l’associazione dei club Forza Italia non solo ha come segretario generale Codignoni, proveniente dalla Fininvest comunicazioni, ma ha anche «tre responsabili-area che lavorano a Programma Italia, la divisione di servizi finanziari della Fininvest»; e il compito di selezionare candidati per le elezioni è quasi sempre affidato a qualche «reclutatore di Publitalia».

 

2. Ha l’abitudine di piegare le idee agli interessi
Tutti ricordano che negli anni scorsi Berlusconi era ottimista a oltranza: i prodotti della Standa dovevano essere smerciati, gli spazi pubblicitari delle sue tv dovevano essere venduti; e le considerazioni di bottega facevano premio sull’oggettività delle analisi. Ma di questa cattiva abitudine adesso arrivano ogni giorno nuove prove.

 

Il 26 ottobre scorso, per esempio, parlando alla Camera Berlusconi fece un vistoso strappo alla retorica del libero mercato e delle privatizzazioni. Disse che il governo avrebbe dovuto fare di tutto per evitare che le imprese di grande distribuzione come la Rinascente (gruppo Agnelli) e la Gs (Iri) cadessero in mani straniere: occorreva «sensibilizzare chi ha la proprietà delle catene... a venire incontro alle offerte italiane». Il motivo dichiarato di questo singolare appello erano i presunti rischi per le aziende fornitrici. Ma evidentemente il nemico giurato dello statalismo, del dirigismo aveva paura che la Standa fosse chiamata a competere con concorrenti troppo forti. Meglio una sana dose di autarchia.

 

Un esempio ancora più eloquente risale al 9 dicembre, quando Berlusconi inaugurò un centro commerciale a Grugliasco. I giornalisti gli fecero notare che la lira, nonostante la vittoria delle sinistre alle amministrative del 5 dicembre, si era apprezzata nei confronti sia del dollaro sia del marco. E lui, pur di non riconoscere che il suo allarmismo davanti a eventuali successi del Pds era stato eccessivo se non infondato, si inventò lì per lì una spiegazione priva di senso: «Ho parlato con protagonisti della finanza internazionale e mi è parso di capire che c’è stato un certo sostegno alla nostra moneta. Questo potrebbe spiegare perché non c’è stata una caduta della lira». In realtà non c’era stato alcun intervento; e nessun sostegno avrebbe mai potuto provocare la decisa impennata della lira che ci fu.

 

3. Appoggia i referendum perché gli fanno comodo
Tracce del connubio politica-affari tipico di Berlusconi si trovano anche nella vicenda dei dieci referendum promossi di recente da Marco Pannella. Il cavaliere ha dichiarato «prossimissimo» (Grugliasco, 9 dicembre) il suo appoggio; e nell’Euromercato di Assago il gruppo Standa ha prontamente deciso di ospitare i tavoli per la raccolta delle firme. Dopo un paio di giorni l’iniziativa è stata bloccata dal consiglio d’azienda. Ma un rapido esame dei testi pannelliani basta a spiegare l’infatuazione di Berlusconi per i dieci referendum. Uno di essi, infatti, propone di vietare puramente e semplicemente alla Rai la raccolta della pubblicità; di eliminare insomma dal mercato degli spot l’unico vero concorrente della Fininvest. Altri due referendum suggeriscono l’abrogazione delle licenze di commercio e la liberalizzazione degli orari dei negozi, due misure dalle quali la Standa trarrebbe giovamento sicuro.

 

In casi come questo, il do ut des fra partito e azienda si presenta allo stato puro. In altri casi, come quello del rapporto con le banche, lo scambio è più complesso: la promessa di una luminosa carriera politica è un accorgimento in più per ottenere comprensione dagli istituti di credito; e questi, dando ossigeno finanziario al gruppo, contribuiscono a rendere possibile il debutto in politica (i cui costi sono stati stimati da “L’Espresso” in circa 200 miliardi).

 

4. Ha bisogno del governo per salvare le sue aziende
Era proprio necessario, per la tutela degli interessi di Berlusconi, proclamare la guerra santa contro la sinistra? O non sarebbe stato meglio puntare su un graduale appeasement, come auspicavano Gianni Letta e Fedele Confalonieri? Dopo tutto, fino a poche settimane fa la Fininvest e il Pds non erano ai ferri corti. A Botteghe Oscure le colombe sembravano prevalere sui falchi, come dimostrano sia la vicenda delle telepromozioni sia il carattere puramente declamatorio degli attacchi alla legge Mammì. Né c’erano minacce incombenti: le concessioni tv scadranno solo nell’agosto 1998. Quest’estate il gruppo di Segrate aveva perfino valutato l’opportunità di ingaggiare, per le sue tv, Michele Santoro e lo stesso Angelo Guglielmi, forse in omaggio a un antico consiglio di Bettino Craxi («Fa’ spazio in una rete ai comunisti, e sei a posto»).

 

Poi, all’improvviso, la soluzione della coesistenza pacifica con la sinistra è stata scartata. Perché? La risposta più plausibile è questa: a Berlusconi un patto di non aggressione con Achille Occhetto non bastava e non basta. Egli ha bisogno di un governo che non solo non lo disturbi, ma faccia qualcosa di straordinario per lui. Che cosa? Di tutto. Qualche assaggio c’è nel suo discorso del 26 ottobre alla Camera. Illustrando la sua ricetta per l’economia, il cavaliere indicò due provvedimenti fabbricati su misura per lui: «Detassazione della manodopera soprattutto per quanto riguarda le nuove assunzioni», indispensabile per chi come Berlusconi fa della crescita a tutti i costi un credo assoluto; e «una norma che inviti gli imprenditori a reinvestire il loro profitto nell’impresa defiscalizzando questo profitto», ottima per chi come lui, non essendo quotato in Borsa, non è circondato da torme di azionisti che reclamano un dividendo.

 

5. Rischia di essere strozzato dai debiti
Dei debiti di Berlusconi si parla da anni. Mercoledì 22 dicembre il R&S, la bibbia degli analisti finanziari, ha rilanciato l’allarme, mettendo in evidenza il pessimo rapporto fra debiti e patrimonio netto nei conti Fininvest. Ma già prima erano stati gli amici del cavaliere a piangere miseria. Domenica 17 ottobre Umberto Bossi aveva rivelato che «Berlusconi è parecchio esposto» con la Comit e il Credit, e aveva addirittura ipotizzato che Enrico Cuccia volesse privatizzare col metodo del noyau dur quelle due banche al solo scopo di «far fuori» il Cavaliere. Il 10 dicembre c’è stato un toccante appello di Rocco Buttiglione: «Evitare che le sue aziende vengano strangolate dai debiti e dalle banche». Il 18 dicembre Gianfranco Miglio ha dichiarato a “L’Espresso”: «Mah. Certo deve essere strozzato dalle banche». Lo stesso Berlusconi alla Camera ha confessato «un rilevantissimo cumulo di esposizioni nei confronti del sistema creditizio».

 

Secondo il R&S, alla fine del 1992 i debiti finanziari della Fininvest ammontavano a 4.528 miliardi. Un semplice paragone basta a dare un’idea dei termini della questione. Per effetto del catastrofico debito pubblico italiano (quasi due milioni di miliardi di lire), si suole dire che in media ciascun cittadino porta sulle spalle il fardello di circa 35 milioni di debiti. Ebbene, nel gruppo Fininvest su ognuno dei 27 mila dipendenti (perché tanti sono, non i 40 mila di cui parlano le leggende berlusconiane) grava il peso di 170 milioni di debiti.

 

6. Ma i suoi debiti nascono dalla Sindrome Gardinese
I 4.528 miliardi di debiti non sono una sgradevole fatalità. Sono anche il prodotto di una precisa filosofia imprenditoriale: quella che privilegia il fatturato, l’espansione, il salto di qualità dimensionale, e poco o punto si preoccupa degli equilibri finanziari. Da sempre Berlusconi persegue una politica di accaparramento delle risorse produttive a qualunque costo. Il suo obiettivo è sempre e solo quello di conquistare quote di mercato, di sbaragliare i concorrenti: fatto questo, il potere oligopolistico acquisito verrà usato per sistemare in un modo o nell’altro i bilanci. È l’impostazione in cui affondano le radici operazioni-boomerang come l’acquisto della Standa a un prezzo molto superiore al giusto, come la creazione, per le reti tv, di un magazzino di programmi da 1.800 miliardi, come la stessa onerosissima scalata alla Mondadori. Da questo punto di vista è stato imprudente Berlusconi quando ha dichiarato, il 7 dicembre scorso a Milanello, di «avere costruito sul granito e non sulla sabbia». Egli si può considerare un imprenditore di successo, come molti pigramente dicono, solo in quanto è riuscito a costruire un impero dai confini molto estesi; non certo perché l’abbia reso solido e redditizio.

 

Uno della sua pasta era Raul Gardini. Non a caso il R&S indica proprio nella Ferfin e nella Fininvest i peggio messi, quanto a debiti, fra i grandi gruppi. Anche Gardini aveva ingrandito a dismisura il suo impero. Anche Gardini aveva trovato nelle banche un sostegno cieco. Anch’egli aveva galvanizzato i suoi collaboratori, scatenato adulazioni e invidie, ispirato biografie adoranti. Anch’egli collezionava dimore sontuose, e cercava nelle imprese sportive una facile patente di scaltrezza e di popolarità. L’unica differenza è che per risolvere i suoi guai Gardini praticava l’incontro-scontro col sistema politico; Berlusconi, che opera in anni di incertezza, cerca di costruire ex novo un sistema politico a sua immagine e somiglianza.

 

7. Imprenditore di successo, ma anche di insuccesso
A proposito di Berlusconi imprenditore: nella sua carriera le pagine gloriose non mancano. È stato un ottimo costruttore edile. Ha deciso per tempo di disimpegnarsi dall’edilizia: di costruire sempre di meno, e di vendere sempre di più ai grandi enti. Ha avuto l’intuizione di buttarsi a capofitto nella televisione commerciale e ha creato una rete di venditori di spazi pubblicitari (Publitalia) che per quantità e qualità non hanno rivali in Italia.

 

Da altri punti di vista, invece, Berlusconi non merita di essere promosso a pieni voti. Per esempio, mentre è un magnifico venditore, spesso appare scadente come produttore: in Spagna Telecinco, sua al 25 per cento, è da molti considerata un caso classico di “telebasura”, di tv-spazzatura, e da questa accusa Berlusconi ha dovuto a lungo difendersi domenica 19 dicembre in un’intervista al madrileno “El Mundo”. Per esempio, egli esalta di continuo il libero mercato, ma è il primo a diffidarne: è l’unico fra i grandi industriali a tenersi alla larga dalla Borsa, dove perfino il collocamento della Sbe-Mondadori, originariamente previsto per lo scorso settembre, è stato rinviato a fine 1994; e la struttura proprietaria del suo gruppo è l’esatto contrario della trasparenza. Per esempio Berlusconi è un prodotto casereccio, esporta poco o niente, e quando ha messo il naso oltre frontiera ha riportato sconfitte anche cocenti, come in Francia con la Cinq, dove Codignoni, allora suo proconsole a Parigi, collezionò perdite per decine e decine di miliardi. Per esempio Berlusconi, che si sappia, non ha mai formato un manager degno di questo nome: si limita a reclutare dall’esterno quelli che gli servono; il più illustre, finora, è Franco Tatò, amministratore delegato della Fininvest dallo scorso ottobre, chiamato d’urgenza a intraprendere quell’azione di taglio e controllo dei costi che nessuno a Segrate e dintorni era in grado di garantire.

 

8. E proprio lui dovrebbe tagliare la spesa pubblica?
Se mai diventasse presidente del Consiglio, Berlusconi dovrebbe rispettare il precetto che egli stesso solennemente enunciò, il 26 ottobre scorso, alla Camera: «Non contenere, ma ridurre drasticamente la spesa pubblica». Ma questa è assorbita in gran parte da stipendi e pensioni; tagliarla vuol dire innanzitutto ridurre il numero dei pubblici dipendenti; non è chiaro come, dove, quando ciò possa essere fatto da una persona che per 24 ore su 24 si vanta di essere un grande creatore di posti di lavoro. In ogni caso, è difficile che riesca ad abbattere la spesa pubblica chi non è stato mai capace di controllare la spesa privata, cioè la sua. Per saperne di più, rivolgersi al dottor Tatò.

 

9. Se davvero va al potere, uno scenario da incubo
L’ascesa di Berlusconi a palazzo Chigi non solo non darebbe garanzie sull’avvio di una politica di risanamento. Essa creerebbe anche uno sconvolgimento inaudito nei rapporti fra i poteri in Italia.

 

Sul piano giuridico, l’ex ministro Oscar Mammì avverte che, se non cederà la proprietà delle sue reti tv, Berlusconi non potrà nemmeno candidarsi alla Camera. Ma, se davvero il cavaliere andasse al governo, molti apparati dello Stato, dai carabinieri alla Guardia di finanza, verrebbero a essere gestiti in ultima istanza da un soggetto che, in quanto imprenditore, dovrebbe essere sottoposto alla loro vigilanza. Berlusconi diventerebbe il caso più eclatante di controllore-controllato nella storia del paese; anche uomini chiave indicati dai presidenti delle Camere, come l’Autorità antitrust e il Garante dell’editoria, sarebbero indiretta emanazione di una maggioranza parlamentare di obbedienza berlusconiana.

 

E non è tutto. Berlusconi diventerebbe il monopolista assoluto della televisione, perché al controllo azionario delle reti Fininvest sommerebbe il controllo politico della Rai (attraverso l’Iri, nonché attraverso il consiglio d’amministrazione nominato dai presidenti delle Camere). Partendo dal dominio totale dell’etere, poi, per Berlusconi sarebbe un gioco da ragazzi estendere il suo potere ad altri mass media: gli basterebbe appropriarsi di una incauta parola d’ordine della sinistra, «abroghiamo la legge Mammì», per azzerare le poche misure anti-concentrazione che ci sono, e ripristinare quel mercato selvaggio che è il suo vero obiettivo.

 

Siamo sinceri, è uno scenario da incubo. Davanti al quale anche gli amici di Berlusconi hanno da porsi qualche domanda. Finché si scherza, si scherza; ma il partito-azienda non può, non deve diventare una cosa seria.

 

Questo articolo con il titolo originale “Per l’Italia e per la Ditta” è stato pubblicato sull’Espresso il 7 gennaio 1994

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