Si torna a parlare di una riforma che guardi alla Francia. Ma a sproposito: il capo dell’Eliseo controlla la maggioranza, mentre in Italia rischiamo gli avatar

Con l’approssimarsi dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, il tema della riforma costituzionale è tornato in auge. Anche nella variante di un adattamento non scritto della meccanica istituzionale a spinte “di fatto”.

 

Purtroppo, però, è difficile sottrarsi alla sensazione che il tema non sia sviluppato con la gravità che richiederebbe. E anche quando le intenzioni di chi prospetta cambiamenti di diritto o di fatto sono le più serie, le riflessioni appaiono spesso frettolose e superficiali. Contingenti. Non tengono conto di quanto per comprendere il funzionamento di un sistema, e quindi per immaginarne mutamenti, sia necessario essere consapevoli della pluralità e complessità dei meccanismi.

 

Così ci troviamo con esplicite proposte di riforma in senso semi-presidenziale, o ipotesi di forzature costituzionali legate all’elezione di figure “forti”, che prescindono dal contesto in cui dovrebbero calarsi. In particolare, troppi osservatori e politici tendono a dimenticare che in assenza di un sistema dei partiti minimamente funzionale agli obiettivi del governo della cosa pubblica, non vi è soluzione istituzionale che regga. E di quel sistema, di fatto, oggi noi siamo privi.

 

La chimera è oggi soprattutto il sistema presidenziale alla francese. Le istituzioni della Quinta Repubblica hanno fatto il loro dovere per decenni. Hanno consentito di governare il Paese con una certa efficacia, capacità di previsione, innovazione, risoluzione dei conflitti. Oggi il sistema conosce una grave impasse. Non ha più un sistema partitico sul quale reggersi ed è sempre più in balia delle personalità del momento. Il Presidente Macron ha costruito il suo successo su questa crisi e l’ha a sua volta aggravata. È operazione assai complessa districarsi tra cause ed effetti della crisi politico-istituzionale d’oltralpe, ma è interessante rilevare un paradosso. Proprio quella istituzione, la presidenza della Repubblica, che svolse un ruolo così importante nello stesso sviluppo dei partiti e di un sistema partitico funzionale all’alternanza, oggi appare essa stessa un fattore destrutturante. La presidenza e l’elezione presidenziale, perché calate nel contesto fluido della contemporaneità. Per rendersene conto basta guardare ai candidati delle presidenziali della prossima primavera e alla distribuzione dei consensi rilevata dai sondaggi: frammentazione unita a estemporaneità ed estremismo. Il presidenzialismo, incamerando la dimensione del “carisma”, ha una carica rivoluzionaria, di innovazione profonda. Ma in un contesto dove i corpi solidi della politica moderna tendono a dissolversi, quella carica potrebbe avere l’effetto di una catena di esplosioni incontrollabili. Varrebbe perlomeno la pena di rifletterci prima di pensare che l’adozione di un presidenzialismo possa sempre e comunque portare vantaggi.

 

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Ma anche senza pretendere riflessioni troppo alte, sarebbe già sufficiente interrogarsi su come il semi-presidenzialismo francese sia riuscito a funzionare per decenni. Nell’ipotesi di una salita di Mario Draghi al Colle, da più parti si è immaginata la situazione di un ruolo presidenziale che vada oltre i limiti della nota fisarmonica di Giuliano Amato, con l’ex banchiere centrale europeo all’effettiva guida del governo e un primo ministro suo fidato “collaboratore”. La dinamica del semi-presidenzialismo francese in assenza di coabitazione. Perfetto. Ma c’è un piccolo problema. Quella dinamica in Francia si è affermata e consolidata grazie a maggioranze partitiche in grado sia di produrre presidenti sia di controllare la Camera bassa. Draghi non ha un partito, non ha qualcuno che lo costruisce e consolida per lui, come Pompidou fece per de Gaulle. Nemmeno il suo collaboratore fidato, ad esempio l’attuale ministro Franco, avrebbe un partito.

 

Secondo la logica semi-presidenziale francese, la capacità di azione del presidente riposa sulla sua capacità di controllare la maggioranza che esprime governo e primo ministro. Calata questa logica nel caso italiano, il massimo che ci si potrebbe aspettare sarebbe un Draghi Presidente che, come oggi il Draghi premier, cerca di governare in mezzo a un’armata Brancaleone di partiti egoisti e incapaci come gli attuali partiti italiani. Non avendo però gli strumenti per farlo, se non attraverso il suo avatar, che siederebbe però nel Consiglio dei ministri senza l’autorevolezza del suo dante causa. E sorvoliamo sullo scempio delle istituzioni che tutto questo provocherebbe. Scempio ancor più grave perché, a differenza dell’esperienza francese, la declinazione all’italiana non avrebbe la forza di trasformare l’eccezionalità in prassi. Perché gli attori sono diversi e soprattutto non esistono più partiti, ma aggregati di interessi particolari che aspirano alla mera sopravvivenza. Un Super-Draghi alla presidenza forse funzionerebbe per un po’. Probabilmente lui stesso si stancherebbe presto. E après lui, le déluge.

 

Certamente è più serio immaginare una riforma costituzionale vera e propria. Tuttavia, il modello francese non si trova nella Costituzione del 1958 e nemmeno nelle sue successive revisioni. È, appunto, figlio del concorso di uomini, istituzioni e partiti e non ha mai smesso di mutare. Per questo non è facile importarlo. Nel 2008 si tentò di tradurre in norme costituzionali la realtà della V Repubblica, ma si dovette rinunciare. Troppe aporie, da lasciare al farsi del gioco politico.

 

Così, la riforma ad esempio presentata qualche anno fa da Fratelli d’Italia, che prende pezzi della Costituzione del 1958, appare terribilmente fragile ed ingenua (per inciso, in qualche cassetto esistono progetti di riforma sulla falsariga francese di ben altro spessore). Soprattutto è figlia dell’illusione che un Presidente possa essere governante perché, ad esempio, nomina premier e ministri, non perché controlla la maggioranza. Significativo è che si preoccupi di normare la sfiducia costruttiva. Gli estensori del progetto non devono aver colto la contraddizione con la volontà di attribuire al presidente la direzione del governo. La sfiducia costruttiva, infatti, è pensata per rendere stabile l’esecutivo che trae la propria legittimità dal Parlamento. Ma il presidente trarrebbe la legittimità dagli elettori. E se gli sfiduciano il suo “premier” che si fa? In Francia solo una volta il voto di sfiducia andò a buon fine, nel 1962. De Gaulle sciolse le Camere e grazie alla forza sua e del suo partito stravinse le successive elezioni. Lì finì la storia del voto di sfiducia. Una delle tante aporie, appunto.

 

Intervenire sulle regole istituzionali è naturalmente più semplice che intervenire su realtà complesse come i partiti. Tuttavia, la crisi dei partiti italiani – e delle loro classi dirigenti – ha raggiunto un tale livello di gravità, che concentrarsi sui cambiamenti istituzionali oggi appare come una illusoria scorciatoia verso il nulla. Si parla d’altro perché costa troppo occuparsi di ciò che davvero sarebbe necessario. Occuparsene da protagonisti. Occuparsene da osservatori.