Ore otto del mattino, Roma ancora livida di nubi grigio piombo, Palazzo Giustiniani, di fronte al Senato. Nell’ufficio di Matteo Renzi, leader di Iv, arriva per colazione l’ospite che non ti aspetti: Enrico Letta. Il Letta giovane, il segretario del Pd. Quello dell’hashtag «staisereno«. Quello che l’altra volta, quando Renzi da premier scelse Sergio Mattarella, era nel pieno del suo autoesilio a Parigi, accademico a Science Po. E non è solo: a Palazzo Giustiniani, dopo poco, arriva anche l’altro peso massimo del Pd: Dario Franceschini.
Sul tavolo, stamattina, l’intervista a La Stampa con cui l’ex Rottamatore apre all’elezione di Draghi al Quirinale. Titolo: «Non possiamo lasciare Mario in panchina». Frase chiave: «Noi possiamo schierare Draghi come centravanti a palazzo Chigi o come portiere al Quirinale, ma l’unica cosa sicura è che non possiamo perderlo». È una sorta di dichiarazione di voto, pur condita da mille prudenze.
Draghi, come si sa, è il nome che Letta vorrebbe far ascendere al Colle.
A suggellare il riallineamento c’è anche Dario Franceschini: si ricompone così, almeno per un attimo, la triade che nove anni fa, nel 2013, siglò l’accordo con cui sia pure per pochi mesi fu spartito il potere del Pd post-bersaniano (prima che Renzi decidesse di conquistare anche Palazzo Chigi).
Anche su questo punto, dunque, si volta pagina. Dopo l’incontro di ieri tra il leader leghista Matteo Salvini e il capo dei Cinque Stelle Giuseppe Conte – diventati avversari da quando hanno smesso di governare insieme nel Conte 1 – ecco due arcinemici, forse i duellanti per eccellenza, che nel nome del Quirinale («poi riprenderemo a litigare», celia Renzi) cercano di ritrovare una sintonia di intenti nella primissima mattina, il momento privilegiato (insieme alla notte) per stringere nuovi accordi.