Mappare ciò che si mobilita, che emerge, che si coordina e, soprattutto, ciò che resiste, non può essere, neanche lontanamente, esaustivo; al contrario, la necessità di mappare viene proprio dal voler fotografare la propria limitatezza nel percepire le cose del mondo. Tutto ciò che accade freneticamente, simultaneamente, talvolta violentemente e, spesso, lontano da noi. La limitatezza del nostro sguardo esemplifica anche la limitatezza di sopportare emotivamente lo scibile dell’ingiustizia. In altre parole, mappare rappresenta la necessità di rispecchiare onestamente le proprie urgenze, le proprie bolle d’interesse; situare, soprattutto, ciò che si percepisce individualmente come «politicamente rilevante».
I bias che si incontrano nel fare un lavoro del genere sono sostanziali e palesi, ma più del metodo a volte conta l’urgenza. L’urgenza di sapere, in quest’ordine, che qualcosa si è smosso, che riecheggia in noi e che forse ci appartiene.
Da Nord a Sud, da Est ad Ovest, e con legami più o meno stretti con resistenze oltre confine, qualcosa accade lontano dai riflettori del potere, lontano persino dalla propaganda. La soglia di sbarramento per ciò che è bottom-up, movimenti e partiti, sembra essere l’attenzione mediatica. Viviamo, sempre di più, in un’epoca in cui non ci sono ere, non ci sono eventi, ma solo “news” e il ruolo democraticamente necessario dell’informazione pubblica si perde, sembra essere sostituito dall’elemosina o la svendita d’attenzione. La consequenziali problematicità di ciò non sono solo considerevoli ma ormai attualizzate in forma di governo.
Tracciare linee complesse e localizzare con pazienza le istanze credo sia un lavoro delicato quanto vitale. Nel concepire questa mappa ho osservato tre modalità insurrezionali di fluire sul territorio. Queste modalità, sovrapposte in molte pratiche, si dispiegano intorno a tre nodi: rifiutare il credo della società contemporanea, non volersi sacrificare per questa e aspirare a creare una società migliore.
Comunità sconfessate
Se una persona a noi cara si suicida, probabilmente ci sentiremo in colpa. Noi, proprio noi, potevamo salvarla. Questo non è quasi mai vero. Sul tema, si può intuire che se il suicidio è considerato peccato la ragione storica è forse legata al rifiuto di appartenere a una comunità. Infatti, se poni fine alla tua vita, espliciti il fatto che ciò che io, organo di potere, ho creato per te, quest’universo di valori e costumi, per te non ha significato. Ti sfili dal contratto sociale. E io questo non posso permettertelo, perché così neghi il mio potere: io decido quando e come si deve morire. In altre parole, negare il diritto al suicidio o renderlo peccato è biopolitica. Dall’altro lato è vero che la comunità salva.
Se qualcuno a noi caro si toglie la vita, non abbiamo fallito in quanto individui affettivi, ma abbiamo quasi sicuramente fallito in quanto comunità. La comunità ha il ruolo di produrre significato, di creare risposte, reti di cura e ascolto, anche, e questo è essenziale, una comunità che sia senza Stato, senza religione e senza famiglia, tradizionalmente intesa. Ecco, forse appartenere a una comunità significa accettare di sopravvivere. In questo momento storico, c’è una comunità, diffusa, frammentaria e globale, che porta avanti questo tipo di rivendicazione. Per poterlo fare deve convincere le altre comunità che anche loro vogliono sopravvivere.
È un’opera di convincimento molto strana perché si cerca di trasmettere la volontà di combattere contro qualcosa che non si ha ancora unitariamente interiorizzato come reale: il collasso climatico in tutte le sue cause e conseguenze. In più, mobilitarsi è difficile perché si è spesso precari, depressi e soli mentre dentro di noi l’intuito del collasso climatico è violento, pervasivo e onnipresente. Tuttavia, le persone nella nostra vita che lo vivono con l’urgenza che merita si contano sulle dita.
Nelle proprie bolle si sta di lusso perché rimangono in piedi i valori “borghesi”, ovvero quelli vigenti, che continuano, e temo continueranno proprio fino alla fine, a dare adito a chi, sull’orlo del burrone, si aggrappa con le unghie e con i denti al delirio che questo sia il migliore dei sistemi possibili. Sostare lì è quantomeno confortante, ed è normale che si preferisca il comfort alla realizzazione che tutto è (quasi) perduto.
Dall’altro lato, poche cose sono violente come sentire un’urgenza e non percepirne neanche il seme negli occhi dell’altro; nelle sue abitudini, nelle sue priorità. In altre parole, quello sguardo vacuo ci sta dicendo che la nostra realtà non ha senso e tantomeno quello che ne abbiamo tratto come degno di essere salvato. Se questo accade, uno deve decidere dove sostare: nel proprio intuito (il mondo muore) o con la farsa (il mondo continua); decidere, quindi, da quale realtà essere scollati, da chi dissociare. Abbandonare il credo secondo cui la comunità a cui si appartiene ci proteggerà non è facile: l’insurrezione è una specie di suicidio valoriale collettivo poiché l’insurrezione «destabilizza il presente e lo rende fragile, diffamando la coerenza con cui di solito si presenta» (Holston, 2008).
Chi sono quindi le comunità sconfessate? Nella lettura di questa mappa sono gli agenti politicizzati che iniziano una pratica politica ripudiando un credo. Un esempio di comunità sconfessata è “Giudizio Universale”, lanciata da circa duecento soggetti sul territorio italiano: 24 associazioni e 193 individui. La campagna ha l’obiettivo di condannare lo Stato italiano per la violazione del diritto umano al clima. Questa lotta ha una potenza unica proprio perché ritratta il ruolo dello Stato come entità intoccabile. Ancora più affascinante del percepire lo Stato come reo è, a mio parere, proprio percepire lo Stato come entità di riferimento. In questo senso, alla campagna sta anche il ruolo di dover ridefinire, pubblicamente, i doveri dello Stato e, poi, di procedere con l’accusa.
Sicuramente le storie di successo in altri Paesi europei, come il caso dei Paesi Bassi con l’associazione Urgenda, ci danno speranza, ma ci si chiede se qui in Italia non si debba passare dalla sconfessione prima dell’imputazione.
Le Comunità inoperose
Dall’altra parte, sono quelle comunità che non accettano, per esempio, il compromesso lavoro-salute. Sono quelle che spesso vengono additate di fannulloneria e pigrizia. Sono quegli “ingrati” delle aree interne che non si piegano alle opere pubbliche, private o, spesso , volutamente vaghe. Cittadini per cui il ricatto del lavoro precario in una discarica non attecchisce, così come non lo fa la minaccia di esproprio di terre per una base militare o una linea ferroviaria. Gli esempi di queste comunità si moltiplicano e resistono da decenni in tutta la penisola.
A Torino, da parecchi mesi vediamo il comitato EsseNon lottare contro la cementificazione e la privatizzazione di uno spazio pubblico a pochi passi da Porta Susa. Le comunità inoperose sanno che «il dio della produttività uccide anche i suoi umili servitori» (Bonanno, 1977). Queste comunità condividono molto con le lotte oltreconfine contro i sistemi estrattivisti e neocoloniali; bisognerebbe contaminarsi nella prassi.
Le comunità “terribili”
Sono quelle che vogliono una vita bella. Lottano «per questo, per altro, per tutto». Sono quelle che sottolineano l’intersezione tra lotte apparentemente diverse e lontane: smascherano la struttura comune d’oppressione.
Sì, l’ambiente sovversivo è misero: sono d’accordo con lo scritto anonimo del 2003 che propone una disamina della deriva di certi ambienti politici. Sicuramente nel 2003 le comunità “terribili” si inceppavano in dinamiche di potere patriarcale: si perdevano in narcisismi e personalismi, reiteravano ciò che combattevano. Lo fanno ancora oggi. Il tutto, bisogna dirselo, è aggravato dal fatto che queste comunità abitano castelli di sabbia nella bufera della fine del mondo. Mondo che, oltre a finire, nel frattempo, usa comunque le ultime energie per privatizzare, sgomberare e reprimere. È anche vero, però, che l’ambiente sovversivo sta radicalmente cambiando: si decostruisce e si emancipa dai ruoli che, anche da sovversivi, bisognava tradizionalmente occupare. Si cacciano i maschi, intesi come categoria politica oppressiva e patriarcale, dagli ambienti; si pretendono regimi alimentari che rispettino l’ambiente e gli animali non-umani. Si richiede che gli spazi siano accessibili per chiunque li attraversi; che si usi un linguaggio inclusivo, non-violento.
Pretendere, in contesti di questo tipo, significa opporsi alla prassi fornendo degli strumenti per cambiare il presente. Dunque, per uscire dalla miseria bisogna rendere sovversivi, radicali e inclusivi gli spazi, fisici e mentali, che per troppo tempo sono stati appannaggio di una sinistra intoccabile. Nel frattempo la forza fagocitante e centrifuga del potere ha rosicchiato tutt’intorno, ha portato il nostro sistema globale al collasso, le nostre reti di resistenza a sfaldarsi. Queste comunità terribili allora, assodata la loro pregressa miseria, se pretendono di appartenere alla Storia, devono coltivare e collettivizzare la rabbia, la paura, l’impotenza. Ora, un altro mondo non è solo possibile, ma necessario: la fine del mondo e la fine del mese sono la stessa lotta. Le comunità “terribili”, ormai sono un po’ ovunque e pretendono casa, reddito, autodeterminazione.
Queste tre macro-categorie di comunità si intrecciano e si mischiano fisicamente e ideologicamente. Ovviamente sono frammentate e frammentarie: esagerando si potrebbe dire che in Europa non si ha avuto altro piano politico costante nei decenni se non quello di reprimere, con tutta la violenza possibile, l’opposizione al sistema neoliberista. Le resistenze contemporanee non hanno altra opzione che abitare l’opposizione a tutto ciò che ci ha portati a un punto di non-ritorno. Insorgere, a questo punto, è sfilarsi dal contratto sociale per crearne uno non creato dal sangue, è portare avanti una rivoluzione intima, ancor prima che collettiva, ma non per funzionare, non per “essere felici”, ma per vedere la fine di questo mondo violento e ingiusto, con un senso di pace, di riconciliazione, senza complicità. Insomma: s’è fatta l’Italia, s’è fatto il governo, che ora si faccia opposizione.