Lui, come al solito, è stato lesto a calarsi da Zelig nel nuovo ruolo: quello, stavolta, di una specie di mezzobusto del governo, in collegamento perenne coi talk di ogni peso e colore, in un format televisivo che possiamo chiamare “guerra”. Un vuoto da riempire del resto c’era: il presidente del Consiglio Mario Draghi parla poco, non ha la stessa smania mediatica; il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ancora meno. E quindi, complice anche un certo physique du rôle, come il conduttore di un tg Rai che trasmetta da un fantomatico studio blu della Farnesina, da qualche settimana Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, racconta la guerra con fare azzimato ma grave, elegante ma non troppo. Una sorta di via di mezzo tra Francesco Giorgino e Gianfranco Fini. Immancabile la cravatta, talvolta la pochette, sempre le bandiere, il tavolone di legno coi microfoni e il megaschermo in penombra sullo sfondo.
Da qui il ministro degli Esteri, terzo ruolo negli ultimi tre governi di colore diverso, spiega, chiarisce, scandisce, smorza, rafforza, rassicura. A volte fa notizia (e la gioia dei social) come quando l’8 marzo intervistato a Di Martedì esclamò: «Io sono animalista e penso che tra Putin e qualsiasi animale ci sia un abisso: sicuramente quello atroce è lui». Quel giorno, quando pronunciò la frase simbolo di questo suo momento, Giggino aveva la cravatta grigia. Due sere dopo parlando in collegamento con Piazza Pulita, in cravatta bordeaux, ci ripensò: «Ho usato toni troppo alti», «non volevo e non voglio rivolgere accuse o offese personali, però ribadisco che la guerra di Putin in Ucraina è assolutamente atroce e va fermata trovando una soluzione diplomatica». Atroce è l’aggettivo chiave. E naturalmente adesso il ministro, già entusiasta filo-cinese ai tempi del memorandum d’Intesa sulla Nuova via della seta, già accorso il 22 marzo 2020 a Pratica di Mare come ricorda il generale Enzo Vecciarelli ad accogliere il primo aereo cargo della missione russa e relativa delegazione inviata da Putin, già disponibile a insignire con onorificenze i russi come Alexei Paramonov («la consegna della stella d’Italia è stata concessa dal ministro degli Esteri senza coinvolgere la presidenza del Consiglio», ha precisato Conte, non certo per fargli un favore), adesso Di Maio da Pomigliano d’Arco è giustamente anti-Putin, falco tra i falchi. Anzi, con il solito fare irrimediabilmente naif: più falco di tutti.
Con quanta credibilità tutto ciò avvenga è presto detto: ai piani alti dell’esecutivo c’è chi tra moltissimi imbarazzi e con la promessa dell’anonimato confessa come, pur nella piena consapevolezza della gravità della situazione, sia costretto a soffocare una risata ogni volta che sente il ministro degli Esteri pronunciare frasi dal contenuto pur serissimo: come quando dice che all’orizzonte si profila il «rischio di una terza guerra mondiale».
Ma in fondo il grado di credibilità nemmeno importa. Resta comunque per Di Maio una insperata finestra di visibilità. Il vero problema è un altro, e cioè che la base del suo potere si sta dissolvendo. Il caso del riottoso (e filo-putiniano) capo della commissione Esteri della Camera Vito Petrocelli, le numerose assenze dei Cinque Stelle (non solo degli ex, ma anche parlamentari ancora in forza al gruppo parlamentare) dall’Aula nel giorno del discorso di Volodymyr Zelensky alla Camera, le ancora più numerose assenze il giorno appresso, per ascoltare le comunicazioni del premier in vista del Consiglio europeo (all’inizio erano presenti solo in dieci M5S, poi sono arrivati solo altri dieci, poi hanno cominciato a convocarli per telefono uno a uno), sono soltanto la punta dell’iceberg di un partito che definire alla deriva è poco. Tra guerre tribunalizie, guerre per la sopravvivenza in politica, guerre per la leadership, non è ancora chiaro cosa resterà in piedi. Persino Vito Crimi è tornato a farsi sentire: con il che s’è detto tutto.
Nemmeno la guerra in Ucraina è bastata a calmare gli animi: dopo un paio di settimane di tregua - quando invero Conte aveva comunque il problema di far dimettere Vito Petrocelli dalla presidenza della commissione Esteri, alla faccia del partito nato per fare piazza pulita di quelli che stavano attaccati alla poltrona - la contrapposizione tra l’ex avvocato del popolo e il suo ex vice è ripresa più furente di prima. E anzi si è cominciata a usare la questione Putin come un innesco ulteriore per le polemiche. Con il ministro degli Esteri plaudente accanto a Draghi, pronto ad accompagnarlo a Bruxelles e a collocare «M5S con la Nato». Con l’ex premier e capo dei grillini intento a prendere le distanze dal momento Zelensky e non solo: contrario all’aumento delle spese militari dell’Italia, critico rispetto agli impegni dettati dalla Nato e pronto a smentire al Senato il sì pronunciato anche dai suoi deputati a favore dell’ordine del giorno condiviso alla Camera sul 2 per cento del Pil, iper pacifista più per tattica che per convinzione. Insomma una specie di riedizione aggiornata dei tremendi giorni del Quirinale, quando Di Maio sottolineava i problemi di leadership di Conte e, con altrettanta gentilezza, il leader mai incoronato gli indicava la porta: ma con l’aggravante che Conte è sempre più appannato, debole, vittima delle frecciate interne ed esterne.
Una situazione che aggrava il caos del M5S e che finisce paradossalmente per indebolire lo stesso ministro degli Esteri, secondo il meccanismo tipico dei duellanti, che si combattono fra loro ma si ritrovano condannati ad intrecciare i destini. Luigi Di Maio, in effetti, è il capo della Farnesina in virtù dell’eco lontana di ciò che accadde nel 2018, quando guidava il Movimento che arrivò primo alle elezioni politiche, sulla base di una piattaforma putinian-populista che al momento appare per lo meno dissolta se non problematica, e sicuramente problematica laddove non completamente dissolta: vedasi la corsa pur incompleta per il clap clap a Zelensky in Parlamento, per un verso, e, per l’altro, il clamore a scoppio ritardato per la discussa missione “Dalla Russia con amore” dei tempi contiani.
Così in tutto questo Luigi Di Maio se ne va in giro per l’Africa a caccia di gas appresso all’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi, già considerato il vero ministro degli Esteri con capi della Farnesina ben più influenti di lui; a livello di governo fa a braccio di ferro con Conte su qualsiasi nomina, per i pochi posti che il fronte tecnico-istituzionale che fa capo a Mario Draghi lascia ai partiti (la proporzione è uno e mezzo su quattro, circa); tenta insomma leggiadro di pattinare sopra questa versione del ruolo. Più da statista, diciamo, con una gravitas che tuttavia gli regalano soltanto gli argomenti trattati. E pur sapendo benissimo che era assai meglio tagliato per l’interpretazione precedente: la poltrona rappresentativa, celebrativa, da cerimoniale, fondamentalmente innocua. Quando poteva andare in viaggio di Stato a Madrid, a cena a Palazzo Reale, a farsi insignire Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine di Isabella la Cattolica. Adesso invece gli tocca giocare in un ruolo più difficile, con l’ulteriore aggravante che il premio in palio è lo stesso di prima. Vincere la partita personale contro Conte, traghettare quel che resterà dei Cinque Stelle nel governo post guerra. Se gli riesce, Petrocelli permettendo.