Conte? «Non sa che pesci prendere». Il partito? «Ha bisogno di un restart, altrimenti è destinato a sparire». L’alleanza col Pd? «Solo una somma di percentuali». Il sindaco di Parma che nel maggio 2012 conquistò la prima città importante coi grillini, racconta il Movimento

Ha vinto prima di tutti, a Parma. Prima di tutti ha governato da sindaco (e accettato i compromessi, vedi alla voce termovalorizzatori). Ha lasciato i Cinque Stelle prima di quasi tutti, ha assistito alla loro metamorfosi. Ora loro si sono estinti, almeno in città: «Scrostati dal muro». Lui è sopravvissuto, unico (ex) grillino a fare un secondo mandato in un grande comune, e guarda a nuovi orizzonti.

 

Ecco Federico Pizzarotti e l’«Effetto Parma», vale a dire: vinvere in anticipo. Uno strano destino da Cassandra, sin da quando nel maggio 2012 conquistò, coi Cinque Stelle, la guida della prima grande città: «Quel giorno dissi: o abbiamo una svolta realista, o rimaniamo ideologisti e implodiamo: purtroppo è stata la seconda», racconta. Sono passati dieci anni rotondi da quei giorni che aprivano una nuova stagione. Quella della discesa in campo di Renzi, decisa anche per la vittoria di Pizzarotti, come raccontò poi alla Leopolda. Quella dell’ascesa grillina, col 25 per cento alle Politiche 2013. Pizzarotti governava da sindaco, loro erano all’opposizione in Parlamento: poi, tra il 2016 e il 2018, lui è uscito dal partito, e loro - entrando a Palazzo Chigi – sono diventati più pizzarottiani di lui.

 

A Parma non c’è neanche una lista targata Movimento cinque stelle, è l’anticamera della fine?
«I Cinque Stelle hanno finito di rappresentare qualcosa. Erano l’antisistema: ora sono al governo e non hanno cambiato niente. Se non trovano una quadra per ripartire, un restart, sono destinati a spegnersi».

Si dovrebbero sciogliere?
«Devono rivoluzionare il partito, e può voler dire anche passare per uno scioglimento: un passaggio paragonabile a quello tra il Pci e il Pd. Un re-inizio che va ben oltre la tentazione di andare alla riscoperta delle origini. C’è chi pensa sia il motore per risalire oltre il 10 per cento: non ha capito che bisogna fare un’altra cosa, completamente».

Stiamo alludendo a Giuseppe Conte?
«Ha gestito l’emergenza, ma non ha capito la differenza tra amministratore e politico. E si vede: come capo non sa che pesci prendere. Non ha linea, non ha strategia, cerca di ricavarsi un ruolo inseguendo la polemica del giorno. Ma a M5S non serve un Conte: serve cambiare registro, dire quali sono gli obiettivi dei prossimi anni».

E lei, finito il mandato, che farà?
«Primo: vinciamo a Parma, lasciandola in buone mani, cioè a Michele Guerra. Dopo tanta fatica per risanare il 60 per cento degli 850 milioni di euro di debito, non vorrei tornasse Vignali, che lo ha generato. Io ho altri progetti. Mi sono appassionato alla produzione dei liquori biologici, prodotti con le bacche nostrane. Nocino, barniolino, corniolino. Ho già preparato il business plan».

Lavora per candidarsi nel 2023?
«Sulle politiche ora si apre una riflessione, vogliamo costruire qualcosa che porti la voce del territorio anche a Roma».

Che fine ha fatto Italia in comune, l’ultimo embrione di partito dei sindaci?
«Ci sono mancati i progetti a medio e lungo termine, non siamo sopravvissuti al Covid-19. Come le Sardine».

E la sinistra che fine ha fatto? Propone ancora gli «usati sicuri», come nel 2012?
«È fatta in parte da un elettorato ideologico, uno zoccolo duro che le permette di sopravvivere ma non di vincere. Non ha visione su quasi niente: lavoro, welfare, ambiente. E fatica a intercettare il mondo post ideologico, che poi è quello dei giovani. Serve una proposta chiara, oltre gli usati sicuri, i potentati, i pacchetti di voti che spesso non rappresentano più nessuno».

La convince l’alleanza Pd-Cinque Stelle?
«Alleanza? Ad oggi non ho visto programmi, ho visto solo fare le somme per le elezioni: 20 più 15, 20 più 10. Non è la stessa cosa. Per le coalizioni vale la metafora dell’automobile: possiamo viaggiare insieme se andiamo tutti dalla stessa parte, quindi ci dobbiamo dire, prima, dove andiamo. Ma non è ancora successo. Servono posti in cui si discute».

Ci sarebbero le Agorà di Letta.
«Eh ma quante ne ha fatte? Quale è il risultato, quale è la sintesi, fuori? Bisogna costruire una cornice comune, discutere degli obiettivi, un lavoro che non sta facendo nessuno. Il modello Lepore, Bonaccini. Anche il mio».

È realizzabile un soggetto rossoverde a sinistra del Pd?
«In Germania i Grünen parlano non solo di ambiente, ma di welfare, lavoro, sostenibilità. In Italia, il verde medio parla in termini ideologici, insegue l’ambientalismo empatico. A Parma, per esempio, parla di come potare gli alberi: noi abbiamo piantato più di 10 mila piante, ma se abbattiamo qualcosa dicono “i comuni non sono attenti!”. Uno come il sindaco di Milano Giuseppe Sala taglia dove serve, e magari fa i boschi urbani. Ma qui siamo ancora alla festa dell’albero. L’integralismo allontana le persone».

Ha mai pensato che avrebbe dovuto restare nei Cinque Stelle e combattere da dentro?
«È un dato di fatto che avessero solo regole fiduciarie, quindi una battaglia interna era impossibile. In questo senso riconosco a Di Maio l’abilità di aver scalato un partito non scalabile. E di non aver fatto come Toninelli: almeno ha studiato».

«Il Movimento non è il Pd, Nogarin è stato trasparente, Pizzarotti no», diceva Di Maio quando voleva cacciarla per un avviso di garanzia. Pensa che dovrebbe chiederle scusa, come ha fatto con il sindaco di Lodi, Simone Uggetti?
«Penso che mi darebbe ragione: ho visto cose che loro hanno visto solo dopo. Le faide, gli espulsi, le conseguenze di candidare gente a caso, la necessità del dialogo. Volevano governare da soli, sono finiti nel governissimo pure con Forza Italia. Ma c’è chi ancora mi rimprovera: ti sei alleato col Pd!».

È vero che non c’era democrazia interna?
«Figuriamoci. Gianroberto Casaleggio governava tutto. Stanno per essere pubblicati altri libri in cui si spiega il sistema: lui decideva cosa fare e come farlo; Grillo andava sul palco a raccontarlo. E fino alla sua scomparsa ha retto, questo sistema di gente che non ha mai avuto un potere reale, o una autonomia di decisione. Quando me ne andai, solo una persona mi scrisse: tutti gli altri ebbero paura di ritorsioni, nessuno mi mandò una riga, neanche in privato».

Da sindaco ha avuto sette inchieste e sei assoluzioni. Dice che l’abuso d’ufficio andrebbe modificato, ma che la politica non ha il coraggio. Quando l’ha perso?
«La politica ha paura dell’opinione pubblica, una paura che i Cinque Stelle hanno sdoganato: ormai si teme la propria ombra. Ma dovrebbe ricominciare a spiegare le cose. Non si tratta tanto di coraggio, ma di coerenza, senso della realtà. Spostare un bambino dai binari prima che passi il treno è coraggio: fare lo ius soli è senso della realtà. Enrico Letta ha fatto bene a parlarne quando è diventato segretario del Pd, ma bisognerebbe poi farlo. Si tratta di questioni che dovrebbero avere larga maggioranza in Parlamento. Vale per la cannabis, che è legale anche in Svizzera. O per l’eutanasia».

Voterà per i referendum sulla giustizia?
«Certamente. Ma la politica deve tornare a fare le cose. Quando a febbraio ha bocciato gli altri quesiti, la Consulta ha detto una cosa vera: si tratta di questioni politiche. Far decidere ai giudici è una grave mancanza»

Ha sempre avuto quest’indole eretica?
«Non sono eretico, ho solo detto quello che secondo me non andava. Come quando segnali una perdita d’acqua al condominio. Purtroppo, non solo nei Cinque Stelle, prevale la sindrome Razzi: “Fatti i cazzi tuoi”, mi hanno sempre risposto».