Da destra e da sinistra, dall’opposizione e dagli alleati, il segretario del Pd è sempre al centro del fuoco incrociato. Ma forse, ora che ha dimostrato il buonsenso di Stato, potrebbe anche osare qualcosa

Provo per Enrico Letta una simpatia antica, dai tempi in cui, previo «stai sereno», non contava nulla. Ed è rimasta anche ora che, essendo diventato segretario del Pd, continua a non contare nulla. Certo, i tempi in cui alla “scuola di politica” cercava di costruire una sua polis, una sua «noi ad Atene facciamo così», sono altro rispetto alla tenzone romana che gli tocca affrontare. Dove da sempre «si fa così», ma il «così» è il pantano della partitocrazia che ieri lo illuse, oggi lo illude.

 

Il Letta Bis è un Draghi senza poter essere Draghi. Un generale Custer cui le frecce arrivano da sinistra (che poi così radicale non è), da destra (Meloni, Salvini), ancor più da destra (Italia Viva) e soprattutto da tergo (Base riformista, corrente vivaista del Pd). A Letta tocca la gestione di un partito il cui precedente tenutario ha mantenuto una specie di noleggio a lungo termine, ma solo su alcune parti. Il volante no, ma il cambio sì. In modo che quando c’è da alzare le marce, ad esempio sui diritti civili, utilizza il freno a mano.

 

Per fortuna in modo commendevole. Per ora. Il campo largo è al momento un posto in cui Calenda e i Cinque Stelle mingono alternativamente per segnare il territorio. E dopo il voto, con questa legge elettorale, o con una proporzionale che il Pd propone per essere certo di perdere, dovrà presumibilmente spostare la tenda più in là. Perché senza Forza Italia, nessuno avrà la maggioranza. E che l’ago della bilancia sia ancora Berlusconi, mentre albeggia il secondo quarto di millennio, dà l’esatta dimensione del Paese che siamo: per vecchi, e molto meno per Letta. Cosicché ogni tanto viene da augurargli un Renzi Bis che lo restituisca al suo ruolo accademico parigino, dove i canini doveva usarli solo per frantumare le baguette. Invece no. E non solo perché il suo partito viaggia cinque punti sopra il disastro post-referendario, quello che bastava un sì e invece gli italiani votarono «sdeng». Ma anche e soprattutto per il suo ruolo di pallina antistress della democrazia.

 

Draghi fa passare una virgola di lotta all’evasione fiscale? Salvini può prendersela con Letta. Il ddl Zan torna in calendario? Meloni può dire che Letta vuole il trenino obbligatorio per tutti i maschi eterosessuali. L’Italia manda le armi all’Ucraina? LeU può disegnarsi una traiettoria personale un po’ confusa ma propedeutica alla propria identità. Conte limona di nuovo con Salvini? L’ha deluso Letta. Lo jus primae noctis sugli operai tarda a entrare in vigore? Confindustria può attaccare Letta.

 

La domanda sorge spontanea: perché sempre e solo lui? Forse perché a suo modo, coi suoi limiti, col retrogusto Dc che sa sempre di minestrina, il segretario del Pd è un tizio che non guarderà alle prossime generazioni, spesso perché gli hanno nascosto gli occhiali, ma nemmeno al prossimo like (del resto quando ci prova gli riesce malissimo). E perché incarna quella specie di buonsenso di Stato che, esattamente come lo Stato, lo mette alla mercé dei pianti e delle lamentele di tutti. Anche delle mie. Non che basti per vincere le elezioni, certo. Per quello servirebbe - anche - il coraggio di dire cose impopolari, come fece Romano Prodi, capace di parlare a cattolici ed elettori adulti. Ma siccome Letta lo menano uguale, impopolare o no, forse è il momento di provare il brivido.