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Politica
luglio, 2022

Mario Draghi al martirio del ridicolo

Per bloccare il rischio crisi, il premier si sottomette al rito dell’incontro con Giuseppe Conte. Si vedranno lunedì, nell’antipatia reciproca. Mentre Beppe Grillo se la prende con i traditori (un messaggio per l’avvocato più che per Di Maio)

Teorizzare la frequentazione di Giuseppe Conte. Auspicarla persino. Realizzarla. E così un altro gradino verso l’inferno della politica è stato percorso. Mario Draghi l’ha sceso giovedì pomeriggio, in conferenza stampa, ancora una volta. Tipo martirio. Costretto a lanciarsi, pur di disinnescare eventuali ribaltamenti di governo, in una riabilitazione di Giuseppe Conte, col quale (addirittura) «siamo in contatto». Costretto a esaltare il ruolo dei Cinque stelle, con parole da dichiarazione d’amore: «valuto troppo il loro contributo per accontentarsi dell’appoggio esterno». Costretto a esternare il proprio disagio per il caso dei presunti e smentiti messaggini di critiche a Conte spediti a Grillo: «Non capisco perché mi si voglia tirare dentro questa faccenda, è una cosa che mi è estranea». Costretto – con un qualche sadismo nella domanda - a rendere conto di tempi e modi del proprio telefonare, da seduto, dentro al museo del Prado a Madrid, mentre i leader del vertice Nato sciamavano felici tra le tele: «Ero un po’ stanco», ha spiegato il premier. Offrendo peraltro, nel corso di quest’ultima risposta, un vocabolario nuovo per dire un preciso genere di disinteresse: d’ora in poi a sottintendere un qualsiasi «mi annoiavo a morte», basterà sibilare, come ha fatto Draghi, che era «una attività sociale», «si parlava di quadri».

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Insomma, una resa al ridicolo. Omaggio all’attuale situazione politica, «grave ma non seria» come avrebbe detto Flaiano: la mezza crisi di governo minacciata da Conte e bloccata dal Capo dello stato Sergio Mattarella, con una complicato minuetto di incontri teso a evitare che l’esecutivo si sfarini come un mucchietto di bastoncini di Shangai. A dieci mesi dalle elezioni i leader cominciano ad avere del resto una voglia matta di cominciare la campagna elettorale. Del suo ci mette anche Beppe Grillo, tra un post sul blog e un no al superamento del vincolo di doppio mandato che finirà per indebolire ancora di più il M5S, una volta primo partito.

 

Quanto a Draghi, il gradino precedente verso l’inferno l’aveva percorso sei mesi fa, il 10 gennaio, quando sempre in conferenza stampa aveva proclamato una «postilla»: preannunciò che non avrebbe risposto a domande sul Quirinale e si ostinò poi in effetti a non farlo («accolgo la sua domanda per la parte, diciamo così, accettabile», aveva detto a una cronista). La postilla, va detto, non gli portò bene. Così come la conferenza stampa di fine anno, il 22 dicembre 2021, quando Draghi si era candidato con troppo anticipo e qualche ingenuità al colle.

 

Nulla però di paragonabile con quel che è accaduto in questi giorni.

 

Tornato in anticipo dal vertice di Madrid, bloccato lo strappo Draghi si trova praticamente a doversi confrontare con l’altro da sé. Qualcosa di più che il suo esatto opposto. Frequentare Giuseppe Conte (si sono telefonati, poi scritti, c’è l’appuntamento per vedersi lunedì) è una specie di penitenza. Una condanna. Che non corra personalmente della simpatia, a usare un eufemismo, è cosa nota: e per rendersene conto basta guardare alla subitanea sparizione della lucidità draghiana, ogni volta che le sue mosse riguardino l’avvocato del popolo, come in questo caso. E vale il vice versa. Né vi è da stupirsene. Conte è l’uomo delle mediazioni, l’avvocato diventato premier grazie a intermediari che lo hanno scelto. Draghi è l’uomo che si porta e si rappresenta da sé: è quello che decide e non viene deciso, e che semmai attraverso gli intermediari agisce.

 

Da anni l’inquilino di Palazzo Chigi e il suo predecessore si danno sui piedi: basti dire che il successore incombe da prima della pandemia, dal 2019. L’antipatia, ad esempio, si ritrova già nel settembre 2020, quando alla festa del Fatto, interrogato sulle possibilità di un arrivo di Draghi, Conte disse di «non vederlo come un rivale» e aggiunse che l’avrebbe voluto presidente della Commissione Ue, «ma lui mi disse che non era disponibile perché era stanco della sua esperienza europea». Un trattamento che non piacque all’ex presidente della Bce, anche se poi lui stesso, proprio in questi giorni, si è definito un po’ stanco.

 

È del resto paradossale che il futuro del governo possa passare per l’incrociarsi di lame e di dialogo, proprio sul terreno della politica, tra il banchiere centrale e l’avvocato del popolo, cioè due che fino a poco fa erano estranei alla politica, abbastanza quando non del tutto. E si vede.

 

Anche se poi, certo, l’esercizio sta portando frutti. Così politici come oggi non sono mai stati, tutti e due. Non si può non cogliere lo zampino indiretto di Draghi, nella scissione di Luigi Di Maio che ha rafforzato il suo esecutivo e fatto lo sgambetto a Conte. E per converso: si vede benissimo, con l’operazione condotta via Domenico De Masi-Marco Travaglio, lo schiaffone di vendetta dell’ex premier contro l’attuale inquilino di Palazzo Chigi. Lo stesso Conte è giunto forse adesso al rovesciamento di se stesso: il gattone governista si è fatto barricadero, o per lo meno ci prova, tra una minaccia sconfessata e l’altra (vedasi il voto sull’Ucraina).

 

Manovre che devono aver indispettito Grillo il quale, accusato da Marco Travaglio di tramare con Draghi contro Conte, si è vendicato alla maniera antica. Pubblicando sul suo blog un post sui traditori che nel suo apice contiene una efficace descrizione di Uriah Heep in David Copperfield: «Mani sempre umide e appiccicaticce, che non guarda mai negli occhi il suo interlocutore, che si contorce e che alla fine, dopo aver carpito tutti i segreti del suo benefattore, ne diventa socio attraverso sempre il tradimento e il mescolamento delle carte». Un ritratto non lusinghiero dietro cui molti riconoscono l’uomo che nel febbraio 2021 volle alla guida del suo Movimento. Del resto l’operazione – via Fatto – che l’ha messo in mezzo, non è piaciuta per niente all’Elevato, come fanno notare in queste ore coloro che da sempre gestiscono gli affari più delicati dei 5 Stelle.

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