Il Vaffa day di Mario Draghi si consuma secondo il suo stile: il presidente del Consiglio annuncia le sue dimissioni con parole durissime, alle 18.40 della sera, davanti ai suoi ministri riuniti, dopo una giornata di incertezza. Se ne va perché, dice, non ci sono più le condizioni per restare: «È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo», la «compattezza» che era la condizione per avere una «chiara prospettiva di poter realizzare il programma».
Se ne va, il capo dello Stato gli respinge le dimissioni, ma le condizioni per un ripensamento sono tutte da costruire. Ci sono cinque giorni di tempi supplementari, fino a mercoledì, si vedrà.
Ora è il tempo del vaffa di un Draghi che non è disposto a seguire Giuseppe Conte nei suoi ghirigori ineffabili, nelle arzigogolate veline con le quali il capo dei Cinque stelle fino a pochi minuti prima aveva fatto sapere, in pieno stile contiano, che la mancata fiducia di M5S al dl Aiuti al Senato era un tutto che significava niente. Significa tutto, invece, per Draghi: «Le votazioni di oggi in Parlamento sono un fatto molto significativo dal punto di vista politico», «la maggioranza di unità nazionale non c’è più», dice il presidente del Consiglio ai suoi ministri, tagliando in due le chiacchiere su un ampio voto di fiducia raccolto a Palazzo Madama (172 sì) e l’impossibilità dunque del premier di sfilarsi dal gioco, l’ipocrisia che aveva portato i ministri M5S a sedersi al tavolo dell’esecutivo nel pomeriggio, dopo non averlo votato la mattina.
Uno spettacolo piuttosto imbarazzante anche per chi l’ha recitato: il capodelegazione M5S e ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli al Senato era invisibile, mentre Federico D’Incà, fino a oggi titolare dei rapporti col Parlamento, si mangiava le parole al microfono e stava seduto ai banchi del governo con l’aria di chi volesse sparire.
Raccontano che in Consiglio dei ministri Draghi non abbia dato neanche il tempo di una replica, dopo l’annuncio delle dimissioni. Anche il dem Andrea Orlando, come al solito il più lesto di tutti, non è riuscito a squadernare davvero sul tavolo un possibile «ripensamento». Basta così, avrebbe detto il premier tagliando qualsiasi dibattito e polemica («hai fatto il gioco di Conte», pare abbia gridato contro Orlando il ministro Cingolani). Un vaffa, in questo caso, a tutte le forze politiche, coltivato dall’inizio dell’anno. Da quando cioè, come in un Assassinio sull’Orient Express in versione parlamentare, ciascun partito politico aveva inferto la sua pugnalata sulla strada di Draghi verso il Colle, facendo crollare quella che fino a quel momento era considerata una legittima aspirazione - quando non una vera e propria promessa - della politica che aveva invocato l’ex capo della Bce come salvatore della Patria e che al dunque, temendolo, l’aveva invece scaricato.
I giochetti del logoramento no, il governo a tutti i costi no. È la linea di faglia di Draghi che ha portato in questi giorni a una divaricazione anche piuttosto visibile tra il presidente del consiglio e il presidente della Repubblica – certamente più incline del primo a considerare valore massimo la stabilità del sistema e, invece, il ricorso al voto anticipato un qualcosa da scongiurare. Un dissidio che si è riproposto anche ora quando, dopo il voto di fiducia del Senato, il capo del governo si è recato al Quirinale per un lungo colloquio con Sergio Mattarella. Un incontro dove, sia pure nella "totale identità di vedute" garantita dall'ufficio stampa del Colle, sono emerse di nuovo le «differenze» che ormai sono al massimo attutibili, ma non negabili, tra un banchiere che si considera non un politico ma un «libero cittadino», e un presidente che resterà in carica altri sei anni e mezzo (al posto suo, in qualche modo).
Ed è proprio qui, arrivati ormai quasi alle otto della sera, che si consuma la seconda parte dello spettacolo. Al momento di rassegnare ufficialmente le dimissioni al Quirinale, dove si reca per la seconda volta in un pomeriggio dopo il breve Consiglio dei ministri, ecco al momento di lasciare Draghi si vede respingere le dimissioni da Mattarella. “Vada alle Camere per valutare la situazione”, è il succo del gelido comunicato del Quirinale.
Sembra la realizzazione di una scena che lo stesso Draghi aveva raffigurato in conferenza stampa martedì scorso, quando alla domanda su cosa avrebbe fatto senza la fiducia dei Cinque stelle, il presidente del Consiglio aveva risposto: «Lo chieda a Mattarella. È lui che decide sul rinvio alle Camere». Un modo elegante per prendere tutte le distanze da quella decisione che poi puntualmente è arrivata: quando glielo hanno chiesto, infatti, Mattarella ha dato una risposta con ogni probabilità diversa da quella che avrebbe dato il presidente del Consiglio. Ma una risposta contenente un elemento di compromesso: il tempo.
Già ai ministri, prima dell’annuncio del Quirinale, Draghi aveva fatto sapere che sarebbe andato alle Camere mercoledì 20, cioè cinque giorni dopo le dimissioni annunciate oggi. Un tempo esageratamente lungo, forse utile a imbastire una drammatizzazione e a creare le condizioni per una marcia indietro dei Cinque stelle. Un tempo forse sufficiente a rafforzare il presidente dimissionario.
La prospettiva si era infatti fatta subito fosca. Spread su, borse giù, dimissioni sui media di mezzo mondo. Immediata la richiesta del centrodestra, avanzata stavolta prima da Giorgia Meloni, di andare alle elezioni. Circolazione di possibili prossimi premier tecnici, come Giuliano Amato, Luciana Lamorgese, Daniele Franco. Nomi da paura: non certo popolari, difficilissimi da sostenere per partiti che si trovano comunque alla vigilia delle elezioni.
Un quadro pesante anzitutto per il Pd, agnello sacrificale di tutti i governi di responsabilità e quindi anche eventualmente del prossimo, e non a caso pronto a sostenere con più convinzione la necessità di lavorare ad un ritorno di Draghi: «Ci sono cinque giorni per lavorare affinché il parlamento confermi la fiducia al Governo Draghi e l’Italia esca il più rapidamente possibile dal drammatico avvitamento nel quale sta entrando in queste ore», twitta il segretario dem Enrico Letta.
Giorni che anche i Cinque stelle possono utilizzare per ripensare le mosse, dopo una giornata che, a detta dell’intero Senato (grillini esclusi, ma neanche tutti) ha dimostrato la scarsa abilità politica del Movimento e soprattutto del suo capo, incline evidentemente a restare prigioniero delle proprie parole e vittima della propria propaganda. Difficile, in queste condizioni, rivendicare la caduta di di Draghi come una buona azione, fatta nel nome del no a un inceneritore peraltro.