Oggi Mario Draghi non è andato a Palazzo Chigi. Altre stanze sono rimaste vuote. Ci si affretta a procurarsi un altrove. Queste sono forme di distacco emotivo. A ciascuno la sua. Anche se un ex banchiere centrale, per citare la barzelletta che ha raccontato il medesimo Draghi, ha un cuore duro e perciò intatto. Invece le sue dimissioni sono un fatto politico e pure emotivo. Due categorie simili perché due categorie instabili. Almeno in Italia.
Draghi s’è convinto che il tempo per il suo governo sia finito e che accanirsi sia un danno per l’Italia e per sé stesso. La maggioranza di governo è finita. Per la qualità, pessima, che ha espresso nelle ultime settimane. Non per la quantità, sufficiente, che ha registrato con la fiducia in Senato.
Ci sono quattro giorni da qui a mercoledì, quando parlerà alle Camere, per sovvertire le sue convinzioni, che ogni ora che passa, a casa, in solipsistica solitudine, si fanno più profonde. Lo spazio ricavato dal presidente Sergio Mattarella per far in modo che accada l’improbabile (non l’impossibile).
Stavolta non basta una piroetta di Giuseppe Conte né un cambio di abito e di umore di Matteo Salvini, non un senatore in più o un accorato appello di un ministro. La politica, paradosso, non può offrire a Draghi ciò che cerca. Quello che serve a Draghi e dunque alla politica per darsi coraggio è che pezzi d’Italia, com’è accaduto un anno e mezzo fa, credano che questo governo sia ancora utile al Paese e non utile all’Unione europea, agli Stati Uniti, agli anonimi mercati o, peggio, a procrastinare le elezioni.
In questo senso hanno un valore pregiato i comunicati, seppur differenti, dei vescovi italiani con il cardinale Matteo Zuppi, del sindacato Cgil con il segretario Maurizio Landini e altri interventi da artigiani, industriali, associazioni, intellettuali. La società. La Cgil ha usato le parole più adatte: «Non è il momento di indebolire il Paese e bloccare le riforme». Si blocca qualcosa che avanza, non che è condannato all’immobilismo. Ecco. Draghi ha certificato la crisi di governo con ampia maggioranza al Senato perché non esiste un quasi governo, mentre Conte era lieto di stare quasi in maggioranza e quasi fuori dalla maggioranza con i ministri quasi dentro. L’unica certezza è che mercoledì sera ci sarà un governo Draghi forte o non ci sarà un governo Draghi. Non è contemplata l’ipotesi che ci sia quasi un governo.
I numeri, certo. I sondaggi, ovvio. Le brame di potere, come no. Però qui incide il lato umano, emotivo. Per Conte, che non vuole chiudere la sua fugace esperienza di capo di partito con un obbrobrio istituzionale. Per Salvini, che è tentato dal voto e dai comizi con e contro l’alleata rivale Giorgia Meloni. Per Forza Italia e gli altri partiti minori che non vogliono responsabilità che non possono permettersi.
Il professore Federico Caffè, il maestro di Draghi, un uomo di alto spessore morale, nel 1967 scrisse una lettera molto sentita al suo amico Paolo Baffi, allora direttore generale e futuro governatore della Banca d’Italia, per annunciargli a malincuore che intendeva rinunciare al suo ruolo di consulente per gli impegni universitari. Poiché era molto affezionato a palazzo Koch, attese due anni per rendere effettive le sue dimissioni. In fondo per concludere la legislatura ci vogliono appena otto mesi.