Analisi
Il programma di Matteo Renzi e Carlo Calenda, elenco di buone intenzioni con l'ossessione della meritocrazia
Il documento di Azione e Italia Viva ricorda il catalogo di Leporello: una strabordante lista con tante contraddizioni
Si chiama stratagemma delle liste e non si riferisce alle candidature elettorali: è, invece, un antico espediente della commedia dell’arte che serviva a divertire il pubblico attraverso un’elencazione strabordante. L’esempio più noto è il catalogo di Leporello, portato a perfezione da Lorenzo Da Ponte e Wolfgang Amadeus Mozart in Don Giovanni, laddove il servitore rende note al pubblico le innumerevoli conquiste del suo signore. Ovvero: In Italia seicentoquaranta; In Alemagna duecento e trentuna; Cento in Francia, in Turchia novantuna; Ma in Ispagna son già mille e tre.
Bene, il programmone di Azione e Italia Viva è come il catalogo di Leporello: 68 pagine e 20 punti che comprendono tutto quanto si può immaginare. Incremento del 2 per cento del Pil in tre anni, no al reddito di cittadinanza, sindaco d’Italia, salario minimo a 9 euro. Su tutto, però, un concetto che vale la pena approfondire: la meritocrazia. Perché nel programma il merito è ovunque, fin dalle parole introduttive: «Compito della politica è mettere tutti sulla stessa linea di partenza, e lasciare che ognuno possa dispiegare liberamente il proprio potenziale. Non serve inventare nuove tasse, sognare la patrimoniale o riempirsi la bocca di “redistribuzione della ricchezza”, serve il connubio inscindibile tra meritocrazia e pari opportunità».
Merito e premio, queste le parole chiave, un po’ ovunque. Dai rifiuti («sul modello dell’Emilia-Romagna, proponiamo di premiare i Comuni con le migliori performance in materia di riduzione e trattamento dei rifiuti») al lavoro («stimolare la produttività del lavoro riducendo le tasse che si pagano sulla retribuzione erogata per premiare gli incrementi della produttività, detassando completamente i premi»), dalla scuola («va ripreso il percorso interrotto dai governi Conte, perché non può esserci autonomia senza valutazione») all’Università. Per la quale, a proposito, si propone la trasformazione degli atenei in fondazioni di diritto privato (a capitale «orgogliosamente pubblico»), visto che «le università sono realtà di mercato».
Vale la pena spendere due parole sul termine «meritocrazia»: che, sorpresa, non nasce con Margaret Thatcher, ma all’interno della narrativa fantastica. Passo indietro: Michael Young era un sociologo inglese, impegnato politicamente (suo il manifesto del partito laburista del 1945), che nel 1958 scrisse un romanzo, o un pamphlet, o tutte e due le cose. Si intitolava The rise of meritocracy, L’avvento della meritocrazia, e vi si sosteneva che la meritocracy, neologismo coniato appositamente da Young, avrebbe portato a una diseguaglianza sociale ancora più marcata.
In poche parole, quel termine appare per la prima volta in una distopia dove la posizione sociale di un individuo viene determinata dal suo quoziente intellettivo e dalla sua resa lavorativa. Scrive Young: «Gli uomini, dopotutto, si distinguono non per l’uguaglianza ma per l’ineguaglianza delle loro doti. Se valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza o la loro efficienza, ma anche per il loro coraggio, per la fantasia, la sensibilità e la generosità, chi si sentirebbe più di sostenere che lo scienziato è superiore al facchino che ha ammirevoli qualità di padre, o che l’impiegato straordinariamente efficiente è superiore al camionista straordinariamente bravo a far crescere le rose?».
Per la cronaca, nel testo i governanti meritocratici finiscono malissimo. Questa è la cornice. Quanto al catalogo, si rivela fitto di interessanti contraddizioni. Sull’immigrazione, per esempio, si propone di «ristabilire una distinzione tra profughi umanitari (che hanno specifiche tutele internazionali) e migranti economici (che potrebbero inserirsi direttamente nel mercato regolare del lavoro solo con permesso di soggiorno ad hoc). In tal senso è funzionale la reintroduzione della figura dello sponsor per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro a distanza». Dove? In agricoltura, per esempio. Dove si immagina «la reintroduzione del permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di lavoro garantito da uno sponsor (appunto, ndr)» e il ripristino dei voucher. Ma la cosa interessante, come già notato su questo giornale, è l’inserimento dello Ius Scholae non nel capitolo diritti ma proprio in quello sull’immigrazione. Quindi i ragazzi e le ragazze di seconda generazione, che in Italia sono nati o cresciuti e studiano, vengono nei fatti considerati ancora «immigrati».
Sulla scuola, torna la libertà educativa, che era anche proposta di Fratelli d’Italia, se ricordate, e dunque vale lo stesso commento. Sui diritti: da una parte si intende approvare la legge contro l’omotransfobia, dall’altra si propone la procedibilità d’ufficio nei casi di violenza domestica o stupro, quindi anche in assenza di denuncia (non dovrebbero decidere le donne se denunciare o no?).
Infine, una parola sulla cultura, capitolo 16, dove si ricorda che gli italiani leggono pochissimo, dunque occorre «valorizzare e rendere le librerie dei luoghi di incontro e di comunità». Bellissimo. In particolare, si propone di «finanziare le librerie che offrono corsi di avvio alla lettura per bambini. In questo modo si potenzia anche il ruolo delle librerie come luogo di scambio e di formazione. Saranno sostenuti anche i librai che avvieranno collaborazioni con le scuole primarie per queste attività durante le ore del tempo lungo scolastico».
Ecco, forse qualcuno dovrebbe dire agli estensori del programma che la maggior parte delle librerie sono già luogo di scambio e formazione (anche le biblioteche peraltro, mai nominate nel documento), e che in moltissimi casi già collaborano con le scuole e che in altrettanti casi propongono iniziative di lettura per bambini. Poi, qualcuno dovrebbe anche dire che i bambini e le bambine leggono: è dai 18 anni in poi che non si legge, e che sono i manager italiani a leggere pochissimo rispetto ai Paesi europei. E qualcuno dovrebbe anche ricordare un meraviglioso articolo che Beniamino Placido scrisse sulla partita Roma-Liverpool del 30 maggio 1984 per la finale di Coppia dei campioni (la Roma perse ai rigori): se non ci furono catastrofi e risse, fu grazie all’Estate romana e alla chitarra di Antonello Venditti che intonò “Grazie Roma” placando gli animi. «Fu il trionfo della civiltà dell’Estate romana, della civiltà dell’Effimero. Alla quale molti, che hanno in testa solo il cemento armato (costruite scuole, case, ospedali!) fanno la stessa domanda che sanno fare alla Letteratura o alla Musica: a che serve? Serve - sciocconi - a civilizzare le persone». (Ma in Ispagna son già 1003, già)