Sobri. Compassati. Quasi spaventati. Ma i neogovernisti di Fdi chiamano a raccolta, per battezzare la vittoria, i partiti fratelli europei di destra-destra. Da Vox a Chega! passando per Orban. E svelano la cifra dell’homo melonianus, che è populista ma parlamentarista, moderato ma estremista, contrario ma favorevole

Da pensarsi eroe ragazzino come Atreju ad atteggiarsi a lady di ferro come Margareth Thatcher il passo è lungo: un 25 settembre basterà a colmarlo? Inizia l’era Giorgia Meloni e del partito di maggioranza più a destra della Repubblica e la prima sorpresa, vista la prevedibilità dell’esito elettorale, è stata sorprendersi: io, tu, noi tutti – diceva il noto cantautore. Sorprendersi e spaventarsi. Per l’impresa in sé, o per chi la conduce, dipende dai ruoli.

 

«Tutte le paure portano a Roma», titolava ad esempio Libération, nel ruolo suo. Mentre, nell’altro ruolo, Meloni, timorosa, si fiondava subito in ritiro spirituale a studiare da premier: e già questa sparizione è un segno dell’Era Nuova, impronta secchiona dell’homo melonianus (si potrebbe dire «mulier meloniana», o «domina», o addirittura «mater», ma la leader di Fdi non ama le declinazioni al femminile e anche questo è Zeitgeist: segnarselo). A tutti, altro segno, la/il probabile premier ha vietato di festeggiare la vittoria. Per carità. Niente «caroselli», trenini a piazza del Popolo, schiamazzi. Non il giorno dopo, quando i Lollobrigida e i Donzelli, luogotenenti spediti alla conferenza stampa sull’analisi del voto a fare i leader al posto della leader – si fosse trattato di un uomo, mai sarebbe successo - sembravano dei monaci in debito di sonno che si sforzavano di fare gli statisti (c’era anche il capogruppo al Senato, Luca Ciriani, detto amabilmente dai Fratelli «l’Inutile»).

 

Interviste a paginate intere, ministeri in prospettiva (per «Lollo» magari in una fase due, per non dare troppo nell’occhio) ma niente festa. Anche alle tre e mezzo di notte: dopo la vittoria e i discorsi, i militanti di Fratelli d’Italia sono entrati alla spicciolata nel comitato elettorale all’Hotel Parco dei Principi a festeggiare senza far rumore; e le bollicine, apparentemente bottiglie di Valdobbiadene superiore, sono state portate nel privé dei quadri di partito quasi in punta di piedi, a tre per volta per non dare nell’occhio. Sì Meloni, no party. Segno dei tempi. E forse è ancora vivo, tra di loro, il ricordo di quando nel 2008 vinse Gianni Alemanno a Roma e gli aennini dovettero fare la corsa ad abbattere le braccia tese sulla terrazza del Campidoglio, tirarle giù al grido metaforico: «Fiuggi, per pietà».

 

Per la vera festa, il battesimo del nuovo, s’è dovuto attendere qualche giorno: il primo weekend dalla Vittoria (30 settembre-2 ottobre), all’Hotel Quirinale si raccoglie l’internazionale dei conservatori, per tre giorni su “Italian Conservatism. Europe, Freedom, Identity”, organizzato da Nazione Futura, Fondazione Tatarella e “The European Conservative”. La prima adunata a dare il segno eloquente che il nostro Paese – bella sensazione - è diventato una specie di faro per gli estremisti di tutta Europa: dall’Ungheria al Portogallo, dalla Polonia alla Svezia passando per la Spagna. Tutto un programma. Accorrono infatti lo spagnolo Vox nella persona di Jorge Buxadé Villalba, il vice di Abascal; il direttore politico Balász Orbán, braccio destro del premier ungherese; l’ex capo dei democratici svedesi, Mattias Karlsson; André Ventura, presidente dell’estrema destra portoghese di Chega!; il presidente del Danube institute, già consigliere della Thatcher, John O’ Sullivan. E poi americani, israeliani, europei: una rete che sbarca in Italia.

 

«The italian Right just scored an EPIC victory. That’s why I’m addressing the conference on Italian Conservatism in Rome next weekend. We’ll talk about sovereignty, family policy, good government -& the emergent postliberal, multipolar order. See you in Rome», è il tweet che ha fissato in alto nella sua pagina Gladden Pappin, professore all’Università di Dallas e cofondatore della rivista American Affairs (a proposito di Zeitgeist: chi non ha un abbonamento se lo procuri), salutando la «vittoria epica» di Fdi. «Vogliamo lanciare idee per il governo, ora che si apre una stagione nuova, ma anche unire sensibilità diverse, per far vedere che esiste un mondo culturale, politico, metapolitico, profili sempre istituzionali coi quali dialoghiamo, far vedere che insomma non siamo dei mostri», racconta l’editore e organizzatore Francesco Giubilei, 30 anni, a sua volta discreto esempio di homo melonianus, tutto intrapresa, cultura, incarichi e relazioni.

 

Potevano mancare gli italiani? Certo che no. Ed ecco, nel primo battesimo pubblico del nuovo mondo che comanda, s’affollano a parlare di conservatori tanti che sono in predicato per diventare ministri e sottosegretari o direttori o responsabili dipartimenti, o quanto meno maître à penser – sarebbe il minimo. Dal vicepresidente di Ecr Raffaele Fitto al consigliori meloniano Guido Crosetto, gli ambasciatori ed aspiranti ministri degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata (in pole) e Stefano Pontecorvo fino all’europarlamentare Vincenzo Sofo, marito di Marion Maréchal-Le Pen, al vicesegretario Lorenzo Fontana (unico leghista in panel), campione dell’ala cattolico tradizionalista del Carroccio, agli eterni Vittorio Sgarbi e Daniele Capezzone. Per andare poi al meglio che la destra possa offrire sul fronte del pensiero intellettuale e giornalistico: il presidente del comitato scientifico della fondazione di An e probabile prossimo direttore generale (o anche solo delle fiction) Rai Giampaolo Rossi, al direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano che dicono prossimo al trasloco al Tg1, a Paolo Petrecca direttore di Rainews 24 anche lui dato in ascesa, a Gian Marco Chiocci, direttore dell’Adnkronos che non è certo destinato a restare indietro.

 

«Facciamo vedere che non siamo mostri» parrebbe in effetti in cima alle preoccupazioni attuali dell’homo melonianus, come s’è visto pure dall’evidenza che la leader ha voluto dare al tweet di congratulazioni Volodymyr Zelensky, dopo aver passato sotto silenzio i complimenti, ben più tempestivi, provenienti da leader indicati a suo tempo come modelli dalla capa di Fdi: Santiago Abascal di Vox, Marine Le Pen, l’ungherese Orbán ovviamente. Peccato, insomma, che nonostante gli sforzi si cada sempre nel verso degli estremisti: altrettanta evidenza che al presidente ucraino proprio il quartier generale di Fdi ha voluto infatti dare al tweet di risposta di Meloni al primo ministro indiano, il nazionalista indù Narendra Modi, già militante in gioventù dell’organizzazione paramilitare di estrema destra Rss (disciolta per tre volte), e poi noto, da governatore del Gujarat, per lo stile dispotico, le forti limitazioni della stampa, la tolleranza nei confronti della violenza. «We look forward to working together to strengthen our ties», ha scritto Modi a Meloni. Ma sì, rafforziamo i legami. «Bisogna lavorare a ricucire, con pazienza», sussurra pacato Adolfo Urso, possibile sottosegretario con delega ai Servizi, a proposito delle morbidezze su Viktor Orbán.

 

L'ambiguità, come ha ben osservato anche il Financial Times, è una cifra denotativa di Giorgia Meloni e del melonismo. Ambiguità, ambivalenza, un pizzico prima della contraddizione palese. Del resto si parla di un partito che a Predappio ha preso il 36,6 per cento, meno della Lega, che nel 2019 aveva fatto 40: insomma sul filo del tutto e del contrario di tutto persino lì.

 

Ed ecco, proprio nei giorni in cui massimo è l’impegno per la formazione del possibile governo, e quindi la responsabilità, il draghismo, la cautela e la carezza ai mercati, comparire concetti perfettamente meloniani, come la progressività della flat tax - che è un po’ come descrivere un mare in salita, provateci a pensare - raccontata da Maurizio Leo, responsabile economico di Fdi in pole position per diventare ministro delle Finanze nello spacchettato Mef (l’Economia potrebbe restare a Daniele Franco, individuato come vittima sacrificale della pax Draghi-Meloni viste le resistenze di Fabio Panetta). Avanti pure a un ministero dell’Energia che faccia a pendant al vagheggiato (e vagamente mussoliniano) «ministero del Mare». Oppure ecco l’assicurazione di non voler toccare la legge 194 che convive con quella di «non conoscere alcuna donna che non abbia potuto abortire per via degli obiettori di coscienza», offerta da Meloni nell’intervista con Lucia Annunziata; o ancora con il simpatico lapsus della neoeletta Lavinia Mennuni che, dopo aver quantificato con Radio24 in «sei milioni» i «bambini non nati con la 194», ha osservato come negli ospedali i medici non obiettori ci vadano collocati: «Finché c’è la normativa che prevede l’interruzione della gravidanza, è chiaro che ci debbano essere strutture adeguate». Laddove è nell’avverbio il colpo di genio: «Finché».

 

Uno dei punti qualificanti della campagna elettorale è stato d’altronde il taglio al Reddito di cittadinanza che però dovrà per forza convivere soprattutto nei primi tempi con il mantenimento del Rcd, almeno per alcune fasce più deboli, in omaggio a una tradizione più da destra sociale che Meloni non può dismettere, soprattutto se vuole conquistarsi un po’ di meridione: il Reddito dunque ci sarà, «finché non sarà tagliato». Anche sull’immigrazione, per dire, ci si andrà piano: l’autunno-inverno non certo è la stagione dei blocchi navali, tanto più visto che il Nord est imprenditoriale appena conquistato alle ragioni di Fdi reclama manodopera. Sarà dunque tutto un camminare sul filo di lana, per l’homo melonianus. Studiando Chesterton, Scruton, ma anche Prezzolini. Un autentico mito di questa destra e in effetti assai al passo coi tempi, essendo in effetti per certi versi il contrario dell’identitarismo e del patriottismo: uno che ha lasciato il Paese poco dopo l’inizio del regime fascista e che poi salvo una breve parentesi è finito a vivere a Lugano, in Svizzera, tornando in Italia in pratica solo per comprare l’insalata. Il prototipo del fratello d’Italia, per così dire.