I partiti di maggioranza vogliono ridimensionare uno degli strumenti dell’apparato repressivo immaginato da Pio La Torre, autorizzando le misure solo in caso di condanna definitiva

Siamo nel luglio del 2018, gran via vai di carabinieri, minuti di attesa con gli sguardi incollati sul corrimano della piscina di un’azienda agricola di Suvignano, a Monteroni d’Arbia (Siena), sequestrata da Giovanni Falcone nel 1983. L’allora ministro degli Interni Matteo Salvini è pronto a immergersi in uno specchio d’acqua limpido, lui un po’ curvo, costume verde militare: «Che gusto fare il bagno nella piscina confiscata al boss. Doppio gusto». Sorriso a portata di fotografi, cronisti delle agenzie stampa e cameramen chiamati per l’occasione. «La lotta alla mafia sarà una priorità mia e del governo. Mi piacerebbe essere ricordato, alla fine del percorso, come uno che più di altri ha combattuto camorra, 'ndrangheta e mafia».

 

Cambio scena, siamo nel 2023. In Parlamento la maggioranza presenta un disegno di legge per modificare le regole delle misure preventive, rendendo più difficili sequestri e confische per chi finisce in inchieste per reati di mafia. Lo firma l’onorevole di Forza Italia Pietro Pittalis, sardo, già firmatario di un testo base che prevede il ritorno alla legge ex Cirielli del 2005, una delle tante leggi ad personam approvate sotto i governi Berlusconi, secondo cui la prescrizione tornerebbe a decorrere in tutti i gradi di giudizio (in discussione dal 27 ottobre). Instancabile, Pittalis spinge per una proposta di legge che interviene sul codice antimafia del 2011. Per Forza Italia, quello attuale è «un sistema gravemente afflittivo dei diritti fondamentali della persona». Il codice antimafia «ha compromesso il sistema delle garanzie e delle tutele della persona», perché ad esempio «la confisca ha un contenuto fortemente punitivo-afflittivo» dal momento che «prescinde dalla attuale pericolosità sociale della persona». Lo stop a confische e sequestri «facili», più tutele per chi viene coinvolto, magari marginalmente, in inchieste per reati mafiosi. Così le confische e i sequestri vengono trasfigurate in misure penali che possono essere attuate solo in caso di condanna definitiva e non più, come funziona oggi, anche in caso di assoluzione durante il processo.

 

Si aggiunge il requisito della presenza di indizi «gravi, precisi e concordanti» per procedere al sequestro del bene e si limita il controllo giudiziario, la cosiddetta «vigilanza prescrittiva», vincolandola a circostanze precise, modificando anche la norma sui prestanome.

 

Un pasticcio, alla fine lo dice a mezza bocca anche il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro di Fratelli d’Italia «non c’è spazio per nessun arretramento sul fronte antimafia», ma senza condannare direttamente l’iniziativa degli alleati berlusconiani «frutto di fantasiose interpretazioni giornalistiche più che di reali propositi di alcuni colleghi». Perché in fondo qualcosa c’è, una possibilità, sostengono fonti azzurre, che si andrà avanti. Anche la Lega ha presentato una proposta di legge sulle misure di prevenzione, a prima firma del deputato Erik Pretto, rappresentante del Carroccio in commissione Antimafia. La proposta di legge resta e da Forza Italia gli occhi sono puntati sul caso dell’imprenditore palermitano Pietro Cavallotti, in attesa della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che a novembre deciderà proprio riguardo alla confisca inflitta ai suoi familiari per un’asserita (dai giudici della prevenzione) vicinanza alla mafia. La vicenda è quella degli imprenditori di Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo, assolti da ogni accusa di mafia che ha riconosciuto l’errore solo lo scorso anno, certificando la provenienza lecita di quei beni.

 

 L’opposizione, pur ammettendo errori giudiziari e carenze, e in qualche caso eccessi di protagonismo della magistratura, lancia l’allarme: «È un disegno di legge allarmante, che mette in discussione decenni di lotta alla mafie», spiega la senatrice Enza Rando, responsabile Contrasto alle mafie, Legalità e Trasparenza nella segreteria nazionale del Pd.  Vede il rischio di vanificare «il lavoro della magistratura e delle forze di polizia per individuare i beni frutto degli affari sporchi della criminalità organizzata e il lavoro di associazioni ed enti pubblici per restituire davvero quei beni alla cittadinanza, trasformandoli in realtà produttive che offrono lavoro pulito e rafforzano il tessuto sociale ed economico dei territori». A disporre maggiormente, appunto sul territorio, il controllo giudiziario dei beni confiscati, in base all’art. 34 del codice antimafia, è il Nord. Esempio virtuoso Milano dove il lavoro svolto in questi anni da magistratura, forze dell’ordine, enti locali, associazioni e territorio è duplice: da un lato, portare avanti sul piano giudiziario una lotta a mafiosi e clan e, dall’altro, costruire consapevolezza in chi, fino a pochi anni prima, credeva che il fenomeno mafioso non fosse un problema. Il Comune di Milano ha nel suo patrimonio 230 unità immobiliari confiscate alla criminalità organizzata riutilizzate per scopi sociali per un valore di quasi 20 milioni di euro. «La proposta di legge rischia di ammorbidire il sistema di contrasto patrimoniale alla mafia introdotto 41 anni fa da Pio La Torre. Una legge rivoluzionaria che ci ha consentito di indebolire la mafia toccando il punto più rilevante: il patrimonio», spiega a L’Espresso Lamberto Bertolè, assessore comunale al Welfare e alla Salute che dal 27 ottobre al 2 novembre organizza la decima edizione del Festival dei Beni confiscati per sensibilizzare e informare la cittadinanza sull’azione di contrasto alle mafie a Milano e sul riutilizzo dei beni sottratti al controllo criminale.

 

«Togliere patrimoni illeciti dalle organizzazioni criminali ma soprattutto reinvestirli per un’economia sociale civile e sana dovrebbe essere la missione dello Stato. Sarebbe il caso, magari, di migliorare, a distanza di tanti anni quella legge negli aspetti applicativi, dare più strumenti sul territorio per essere più efficaci, dare la possibilità ai comuni processi di assegnazione dei beni. Andare avanti e non tornare indietro». La presidente dell’antimafia Chiara Colosimo si è detta contraria a toccare la legge che colpisce le zone grigie intorno ai clan: «È un vanto nel mondo».

 

Ma non la pensa così il vicepresidente della Camera e deputato di Forza Italia, Giorgio Mulè: «Non è questione di garantismo, si tratta di normalità. Mi hai assolto in nome del Popolo Italiano, mi fai la cortesia di restituirmi i miei beni». Visioni opposte, il preludio di un battaglia sotterranea, qualcosa che si muove dove non si vede, certo il sintomo di una stanchezza tra alleati.