Quello che si vede da fuori, per molto che possa apparire, è appena solo la punta dell'iceberg. La realtà del rapporto tra Matteo Renzi e Carlo Calenda, e quindi dei rapporti dentro il Terzo polo, la mezza federazione tra Italia Viva e Azione, è assai più densa, complessa, e si vorrebbe dire da gabbia di matti - giusto per dare l’idea dell'abisso. Le legnate alternate a carezze che i leader del partito uno e bino si scambiano via interviste, via agenzie di stampa, via social network, come anche i progetti di prossima distruzione e federazione reciproca che inanellano i rispettivi fedelissimi, sono infatti niente al confronto di certe serate lunatiche che taluni amici generosi della coppia (politica) si sono dovuti sorbire, in più occasioni, nel tentativo di rappacificarli.
Roba da telenovelas sudamericane tipo “Schiava Isaura”, niente a che vedere col modello Sandra e Raimondo. C’è dramma, teatralità, ossessione. Con l’uno assiso in salotto che infila battute sadico-sardoniche, l’altro che si innervosisce ed esce a fumare pure se è casa sua, e insegui l’uno e ascolta l’altro, finché l’ora si fa tarda, tutti sono stanchissimi, si imbastisce una riappacificazione che terrà giusto il tempo del prossimo tweet, all’indomani mattina, quando i due avranno ripreso a mordersi ancora prima che tutti gli altri abbiano riaperto gli occhi. «La normale dialettica sui modi», l’ha chiamata Calenda in un tweet simulando distacco. E se la vedano da soli, la prossima volta, è l’invariabile conclusione degli amici.
Va così da mesi e adesso - visti i risultati nelle urne - la faccenda si è persino aggravata. Uno vuole andare più veloce verso il partito unico già dal mese prossimo, l'altro al contrario vuol andare più piano fino forse a inabissarsi ben prima delle Europee 2024, ma senza darlo a vedere (il segnale più grave è che abbia cominciato dire «tranquilli», «diamoci una calmata»). Il nervosismo post regionali è appena sottopelle (giusto il tempo per Calenda di dire che gli elettori hanno sbagliato), il prossimo Comitato politico in settimana dirà meglio. Intanto l'ultimo colpo è da stendere un bue: nel Lazio l’ex deputato di Iv Luciano Nobili, inizialmente escluso dal Consiglio regionale, ha fatto ricorso e nel riconteggio ha finito con il superare in preferenze Pierluca Dionisi (Azione, ex Udc) risultando eletto al suo posto. È salito così a due a zero per Italia Viva il totale degli eletti in regione del terzo polo: i calendiani avevano il capolista, altro privilegio rivelatosi inutile. Lo squilibrio peggiora se si considera anche la Lombardia: saliamo quattro eletti a uno. Sempre per Matteo ovviamente.
Ed è così che Calenda e Renzi, pur titolari dell’unico soggetto politico definibile riserva di governo, ossia in grado di sostituire Forza Italia come già accaduto per l’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato, si trovano al momento sull’orlo di un bivio, a rischio baratro. È un peccato anche per Giorgia Meloni, visto il palmare bisogno che avrebbe lei di una alternativa a Silvio Berlusconi, in disgrazia presso i popolari europei che hanno annullato le giornate di studio a Napoli, e preso di mira in ultimo persino da Volodymyr Zelensky in persona. Il risultato pessimo della lista Italia Viva-Azione alle Regionali - nel Lazio ha preso il 4,9 per cento (75 mila voti) contro l’8,5 per cento (231mila voti) delle politiche 2022; in Lombardia ha preso il 4,2 per cento (122 mila voti), contro il 10,1 per cento (513 mila voti) di settembre - ha infatti messo un macigno su quella strada, l’ha resa meno fluida nell'alternanza tra vedo-non-vedo giocata sinora.
Anche qui, come in tutto il resto del connubio tra Italia Viva e Azione, siamo infatti alle prese con un partito bifronte, nel quale in qualche modo Matteo Renzi, assieme alla leadership (provvisoria) e al simbolo elettorale (per evitare la raccolta delle firme), ha ceduto a Carlo Calenda (che di suo metteva i voti) l’onere di interpretare l’aspetto pubblico, mediatico, riservando per sé, in modo più spiccato che in passato, il ruolo dell’eminenza grigia.
Carlo dunque twitta e polemizza, Matteo tesse e fa eleggere. Carlo va a Palazzo Chigi, come accaduto a fine novembre, a discutere con Meloni di controproposte sulla finanziaria e convergenze sulla giustizia (spazzacorrotti, magistrati fuori ruolo, separazione delle carriere) poi scende in piazza a farsi l’eco da solo nella selva dei cronisti, poi va in tv, poi twitta. Renzi è immaginabile al massimo tra gli arazzi del Senato, quando non in qualche Emirato tangibile o metaforico, comunque assai più in penombra di quanto non fosse da premier e segretario del Pd: in questa sua nuova versione di se stesso, l’ex rottamatore divenuto andreottiano sembra aver dimenticato o quasi i social e i tempi in cui scriveva di tutto a qualunque ora. Risultato - schizofrenico, volendo - di questo muoversi in modo che la mano destra di Azione non sappia cosa fa la mano sinistra di Iv: Renzi è quello che contribuisce (lui ancora nega) a far eleggere alla guida del Senato Ignazio La Russa anche senza i voti di Forza Italia; Calenda è quello che, di fronte all'ennesima dichiarazione omofoba della seconda carica dello Stato, twitta come se la faccenda non lo riguardasse: «Domanda: ma uno un pelo più istituzionale e meno fascio non lo avevate a disposizione @GiorgiaMeloni?».
Va bene finché funziona, ma adesso, di fronte ai risultati deludenti del voto, tutto questo triangolare s’è un po' smontato. Calenda ha detto di voler velocizzare l’unificazione con Italia Viva, Renzi ha fatto trapelare di voler togliere il nome di Calenda dal simbolo. La discussione riprenderà ufficialmente una volta finite le primarie del Pd, cioè quando si saprà quale faccia avrà l’ex partito di entrambi. Ma un viaggio tra gli adepti risulta chiarificatore: i più postano la vignetta di Makkox con il leader di Azione ridotto a “pupazzo”, e scommettono sulla prevalenza di Renzi. «I renziani sono pronti a far fuori Calenda». Lo scrive ad esempio Silvio Mostacci, ex segretario provinciale di Azione in Basilicata (si è dimesso in agosto, in polemica con le liste stilate dopo l'accordo con Iv), prontissimo a dare la sua solidarietà a un altro neo-dimissionario di Azione, il segretario della Lombardia, Niccolò Carretta, che ha lasciato appena chiuse le urne delle Regionali, con parole che rendono l’idea di una sopraffazione ancora non sviscerata: «Il risultato è fallimentare e dimostra l’incomprensibilità delle nostre scelte che non sono stato in grado di contrastare», ha scritto. Rese dei conti appena agli inizi.
Mai bisogna dimenticare, peraltro, che esiste l’episodio pilota della saga. È il caso di Roma, dove per la prima volta, nell'autunno del 2021, con Carlo Calenda in corsa per fare il sindaco, fu sperimentata la lista unica Iv-Azione: prese il 19,1 per cento e arrivò prima, sopra Fratelli d’Italia e Pd. In quel caso solo due dei cinque eletti erano in quota Italia Viva: Calenda giurò che avrebbero fatto gruppo unico, ma l’unione durò appena quattro mesi. A fine febbraio 2022, un anno fa, i due renziani al Campidoglio, Valerio Casini e Francesca Leoncini uscirono dal gruppo perché i consiglieri di Azione avevano votato per Virginia Raggi presidente della commissione Expo 2030. Strabiliante è che dodici mesi dopo li ritroviamo ancora così: due gruppi diversi in Campidoglio, Azione di qua, Iv di là.
Non va diversamente in una regione per il resto del tutto atipica come la Puglia. Anche lì infatti in dicembre si è costituito un gruppo di Azione, formato da due ex Pd (Fabiano Amati e Ruggiero Mennea) e da Sergio Clemente, eletto delle liste civiche di Michele Emiliano; accasata altrove è invece Italia viva, sin qui rappresentata da Massimiliano Stellato, eletto anche lui con le civiche e ora nel gruppo misto. Orbene mentre Stellato è in penombra tra l’appoggio e il non appoggio, in Regione è di nuovo riaffiorata una furiosa polemica che riguarda proprio i calendiani. Il gruppo dei tre di Azione infatti non vuol lasciare la maggioranza, anche se a rigor di logica dovrebbe, essendo Amati una storica spina nel fianco del governatore e Calenda un tradizionale suo disistimatore. Qualche giorno fa Emiliano è tornato quindi a chiedere l’uscita del gruppo dalla maggioranza, e in particolare le dimissioni di Clemente da segretario d’Aula, ruolo ottenuto in quanto vicino al governatore: «Il mio appello al consigliere Clemente: ce la può risparmiare questa pena di non dimettersi?», ha detto in Aula, con una memorabile sfuriata che si trova anche in rete. Una vicenda pulviscolare ma che rende abbastanza l’idea di quanto la realtà sia lontana dai volti dei leader del Terzo Polo, e di quante altre puntate della saga ci aspettano.