Le battaglie civili e quelle sociali. La reazione controcorrente ai guai giudiziari. E poi il Pd, i Cinque Stelle, la maggioranza di destra. Dialogo a tutto campo con il presidente di Sinistra Italiana

Sbaglia chi pensa che Nichi Vendola sia ritornato in politica, non l’ha mai lasciata. Ex presidente della Regione Puglia ed ex leader del partito Sinistra Ecologia Libertà, il 26 novembre eletto nuovo presidente di Sinistra Italiana, il partito che nel 2016 nacque proprio dallo scioglimento di Sel. Impegnato dalla mattina sino alla sera in una corsa contro il cronometro d’appuntamenti: viaggi, presentazioni di libri, spettacoli teatrali ma soprattutto impegni famigliari con suo marito Eddy Testa, con cui è unito dal 2004 e suo figlio Tobia Antonio, sette anni, dato alla luce in California da un progetto d’amore comune a moltissime famiglie arcobaleno.

 

Si è sempre parlato di questo negli ultimi sette anni. E della vicenda dell'Ilva che gli è costata una condanna di primo grado, oggi impugnata in Corte d’Appello, motivo per cui, frastornato e ferito, si era allontanato dai ruoli di partito. «Chi lo conosce non ha mai creduto a niente», ripetono in Sel. Il tempo farà ragione dei meriti e dei demeriti, come sempre.

 

Oggi Vendola ha 65 anni e la vitalità di un trentenne: «Non voglio fare quello che è obbligatorio per un leader politico, vivere stanzialmente nel pollaio televisivo, nel talk perennemente. Vorrei attraversare l’Italia per portare avanti un lavoro di ascolto e di connessione di movimenti e associazioni, con reti sociali e nuove esperienze di solidarietà», spiega. 

 

Visto così, a distanza ravvicinata e fuori dalle suggestioni del comizio, sparisce l’aria da sacrestia che gli è sempre stata attribuita, si dilegua, e del signore disegnato emerge una persona energica, corrosiva a tratti, capace di alternare una battuta caustica a una frase elegante, segnale del principio di una nuova stagione ma anche di una passione mai finita. Dell’ex popolarissimo presidente della Puglia che nel 2012 sfidò Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi alle primarie, resta la firma in fondo a ogni sua frase. Vendola non parla, si cita. E ogni parola è radicata in un’idea di futuro:

 

«C’è un Paese lontano dalla politica perché la politica è lontana dalla vita. Ha perso il suo principio costituente che è l’idea dell’alternativa, ha divorziato dai saperi critici e dal principio-speranza». Dal populismo si è sempre tenuto distante e sul leader del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Conte, continua a esprimere le sue riserve: «Sta traghettando il suo movimento dall’infanzia grillina verso una maturità più istituzionale, in qualche modo più simile alla classica forma-partito. Conte è un mix di populismo e moderatismo, direi un progressista moderato. La cosa che mi interessa è la domanda di cambiamento che i Cinque Stelle sono riusciti a intercettare. Mi piacerebbe assistere a un loro congresso, a una discussione vera. Hanno vissuto in uno spazio di tempo limitato, fatto trasformazioni così radicali che forse serve fermarsi a riflettere, non si può passare dalla condivisione delle peggiori cose di Salvini alle migliori cose della sinistra sociale, senza mai fare un punto. Non bastano gli slogan e con i commenti di giornata: qual è la tua idea del mondo? La politica è innanzitutto rispondere a questa domanda». 

 

 

Sul Partito Democratico e sulla segretaria Elly Schlein non ha dubbi: «Tra lei e i suoi predecessori, tutti nessuno escluso, c’è un salto che è generazionale, semantico e culturale: questo per me è importante. Naturalmente parliamo di una persona che fatica a essere il punto di sintesi per un Pd così lungamente ammalato di governismo e moderatismo. Un partito che non è mai riuscito a sciogliere i nodi della propria identità. Faccio un esempio: la bandiera dei diritti civili non può essere compensativa rispetto al terreno dei diritti sociali. Pensiamo a Matteo Renzi (ma non solo lui), a questo riformismo di sinistra che è apparso come una inedita apertura sul terreno dei diritti civili ma con una subalternità nei confronti del liberismo e quindi con un grande arretramento sui diritti sociali». Ma è il velo dell’ambiguità intorno a Schlein a non convincerlo: «Sta provando a liberare il Pd da alcune ombre, come l’infame sostegno al finanziamento della costiera libica. Ma un partito che si dice pacifista non deve esitare a pretendere un inderogabile “cessate il fuoco”, come nella mattanza a Gaza, e secondo me non deve tacere dinanzi allo scandalo della corsa continua al riarmo: chiedere ulteriori 100 miliardi di dollari di finanziamento per la guerra è il segno di un Occidente in piena demenza senile».

 

Non è un uomo di risentimenti. Nel 2014 un ancora poco conosciuto Alessandro Zan di area vendoliana, lasciò il gruppo di Sel per entrare nel Gruppo misto, sostenere il governo Renzi e poi entrare nelle file renziane del Pd: «Nella lotta politica sono stato rispettoso. Certo alcune scelte mi hanno ferito, lo confesso. Ma ho provato a leggere politicamente questa vicenda che era tutta interna alla crisi del progetto di Sel. Gli essere umani cerco sempre di rispettarli, di provare a capirli. Penso di aver sostanzialmente disimparato l’odio. Mi interessa l’umanizzazione del conflitto, la sua militarizzazione è sempre una perdita. Mi piace contestualizzare gli attori di una contesa, decostruire le ragioni della crisi, non lasciarmi mutare in un pitbull addestrato ad azzannare». Di offese ne ha ricevute tante, da avversari ma anche da finti amici, gli ultimi molto recenti, attacchi scomposti, insulti personali. Per la sua politica, certo, ma soprattutto per il suo privato: «Non mi sono mai fatto trovare con lo “sguardo ferito” e sinceramente non ho mai raccontato nulla delle mie ferite. Non ho mai amato presentarmi come vittima, anche se l’affermazione di me stesso è stata un percorso a ostacoli. Ma ho la serenità di aver fatto la “buona battaglia” contro il bullismo istituzionale, contro le polizie morali, contro ogni inquisizione. E poi, sa: la mattina quando mi sveglio, abbraccio mio marito, vedo mio figlio. Dico la stessa frase che ho detto qualche tempo fa guardando in faccia il generale Vannacci: ho vinto io, non tu».

 

Lo sguardo puntato sulle nuove generazioni: «I giovani vengono percepiti e narrati come “corpi del reato”, come un pericolo per l’ordine pubblico: dai rave agli spinelli ai ragazzi di Ultima generazione. Questa isteria repressiva è la cifra del governo di destra. Ribellarsi è giusto, gridavamo un tempo: ecco oggi ribellarsi rischia di essere un reato. Eppure dopo la generazione resistenziale, tutte le altre generazioni che sono state classe di governo hanno occupato scuole, atenei. Tutte hanno vissuto l’inizio della passione politica come una ribellione allo stato delle cose. Siamo di fronte a una classe dirigente che predica la pedagogia dell’umiliazione e guarda alle giovani generazioni con la lente del codice penale. Il bisogno di contenimento dei corpi giovanili, come il bisogno di controllo dei corpi femminili, è emblematico dell’epoca che viviamo». La sua sintonia con i giovani di Fridays For Future e di Ultima Generazione è totale: «Dobbiamo controbattere alle miserie di un ceto politico di trafficanti di miracoli e a volte di veri analfabeti. Matteo Salvini vuole costruire una centrale nucleare per regione: ma dove esattamente? In Padania? Parlano di un nucleare che ancora non esiste o del ritorno a una cosa che è totalmente improbabile per i costi, per i problemi sempre immutati di smaltimento di rifiuti radioattivi, e relativi a un Paese la cui geografia non consente neanche di cominciare questa discussione. È un argomento cassato per due volte dalla democrazia referendaria. Stiamo ancora pagando in bolletta ogni mese i costi delle centrali chiuse già da 50 anni. Comunque trovo impressionante la rivolta anti-ecologista della destra mondiale, il suo negazionismo a ogni livello, da Trump a Bolsonaro a Giambruno: un’oncia del profitto di oggi vale più di tutto il futuro di cui rischiamo di divenire orfani. Ma non bastano le belle parole per reagire adeguatamente alla superstizione antiscientifica della destra. Voglio dire che all’eco-ansia non si deve risponde con l’eco-retorica: una sostanza che somiglia troppo al green-washing. Non è che la domenica si fanno i convegni contro il consumo di suolo e poi dal lunedì al venerdì, piani casa o varianti ai piani paesaggistico territoriali che lo perpetuano. C’è un problema a destra che è il negazionismo ma anche il campo progressista rischia di fare green-washing. Ci vorrebbe un pensiero non timoroso e non dogmatico. Non subalterno ma veramente autonomo sul creato e sulla biodiversità. Cavarsela con una facile sloganistica è davvero troppo poco».

 

«Dobbiamo renderci conto del mondo in cui siamo precipitati», spiega a voce bassa e lenta, con una sfumatura di preoccupazione: «Lo smontaggio del welfare, la criminalizzazione dei poveri, l’accelerazione della privatizzazione della sanità. Il familismo tradizionalista della cultura di destra ha dentro di sé sempre nella scuola pubblica l’immagine di un nemico, di un competitor intruso nei luoghi in cui deve comandare la morale privata. Se passasse l’autonomia differenziata saremmo al compimento di un vero e proprio “colpo di Stato sociale” con la definitiva liquidazione della “questione meridionale”. Così si appropriano dei luoghi di cultura, per organizzare la propaganda, avvelenare il dibattito. L’Italia dopo un anno di governo Meloni sta molto peggio, sarà una deriva il prossimo anno e a questa sensazione di perdita di punti di riferimento per la difesa della vita, la destra offre l’individuazione dei nemici della vita: migranti, ong, comunità Lgbt. Le famiglie arcobaleno, l’Europa matrigna. Fantasmi e loro nei panni dei cacciatori, dei ghostbusters».