Ex ministro, punto di unione tra Pd e Cinque stelle, da primo cittadino di Napoli mira alla presidenza dei Comuni italiani (Anci) e sta costruendo una nuova leadership

La benedizione di Clemente Mastella è già arrivata. Non è detto sia un bene, ma è un fatto, un segno. «La vera forza di consenso sono i sindaci e, sinceramente, io vedo in Gaetano Manfredi colui che può aggregare», ha detto in una intervista l’ex ministro, ora primo cittadino di Benevento. Si parlava della guida dell’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni, alla quale il sindaco di Napoli è candidato favorito (si vota il 22 novembre, l’antagonista è quello di Torino Stefano Lo Russo) al posto di Antonio Decaro. Si parlava, più in generale, del centrosinistra del futuro. Un campo affamato di profili civici, moderati, trasversali, non ancora consumati da quello che il poeta greco Kavafis avrebbe chiamato il «quotidiano gioco balordo degli incontri e degli inviti» (e dei veti, possiamo aggiungere). Ancor più affamato dopo il risultato in Liguria che, insieme alla crescita forte ma solitaria del Pd (28,4 per cento, 9 punti e circa 40 mila voti in più rispetto alle Regionali 2020), ha messo in luce ancora una volta l’assenza di personalità in condizioni di raccogliere i consensi perduti per strada dai giochini dei protagonisti del ex Terzo polo. E quei voti sono tanti: in Liguria Matteo Renzi non era sulla scheda, come si sa, ma Carlo Calenda sì, e in lista con altri civici, Pri eccetera, ha preso l’1,75 per cento. Un po’ poco per fare la gamba di centro, una Margherita dei tempi nuovi.

In una distesa ormai abbastanza desolata per non dire desertica, quella che di vol- ta in volta s’è detto che potesse essere conquistata da un Giuseppe Conte pre-svolta a sinistra, da un Beppe Sala, un Federico Pizzarotti, addirittura (di nuovo, la scorsa primavera) da un Francesco Rutelli, il profilo di Gaetano Manfredi si intravede progressivamente come un’ipotesi. A modello delle opere che il sindaco ha voluto in questi anni esposte in piazza Municipio: prima la Venere degli Stracci di Pistoletto, adesso il Pulcinella di Pesce. L’esempio Napoli, a tre anni dall’elezione, è uno dei pochi in positivo: l’avvio del risanamento dei conti, le nuove assunzioni e in generale una nuova centralità, lo sblocco di interventi e nuovi investimenti, come la riqualificazione dell’Albergo dei Poveri, realizzati grazie ai soldi del Pnrr, che il sindaco – accentrate a sé le deleghe al Next generation Eu, agli investimenti europei, alla coesione territoriale, ai grandi progetti, oltre che alla Cultura, al Porto e all’Organizzazione – si è dimostrato in grado di attirare e gestire meglio di altri. Forse anche in virtù delle sue passate esperienze, come rettore per otto anni all’università Federico II, dove era docente di Tecnica delle costruzioni, come presidente per sette anni della Conferenza dei rettori (Crui), e tra il 2020 e il 2021 ministro dell’Università nel governo giallorosso del Conte 2. 

Per altro verso, Manfredi incarna un prototipo che sin qui non si è realizzato mai, o quasi: quello del gestore tecnico, da fuori, di un patto armonico tra Pd e Cinque stelle, con tutti dentro. Il profilo civico sposato con una capacità di amalgama per lo più inaccessibile, o non altrettanto feconda: Manfredi è stato infatti il candidato simbolo del campo largo, oggi nominalmente vituperato. Un modello, fin troppo: chiamato al governo dal premier a Cinque stelle Giuseppe Conte, ma fratello di Massimiliano parlamentare dem tra il 2013 e il 2018, già consigliere tecnico del ministro Nicolais durante il secondo esecutivo Prodi e con un ottimo rapporto con Dario Franceschini, Manfredi nel 2021 riuscì a sincronizzare gialli e rossi anche nell’annuncio della candidatura (i post uscirono sui rispettivi social in contemporanea, una richiesta tipica della comunicazione dei Cinque stelle) e alla fine si presentò con il sostegno di ben tredici liste. Dai repubblicani a Italia Viva, da Noi Campani di Mastella ad Articolo 1, SI e Psi. Un’ubriacatura vertiginosa. 

C’era ad appoggiarlo pure Vincenzo De Luca, governatore campano col quale Manfredi era destinato, dal minuto uno del suo mandato, a entrare in collisione, rappresentando il primo aggregato di potere alternativo a quello del governatore sceriffo dopo anni di monopolio assoluto. Eppure, pur tra gli inevitabili attacchi e punzecchiature, quel punto di leva, quella frattura è rimasta prudentemente inesplosa. Manfredi è rimasto fuori dalla guerra sul terzo mandato, tornata a divampare in queste settimane dopo il nuovo no del Pd, ma ha fatto la sua comparsa alla riunione di corrente degli anti-deluchiani. Alla fiammata precedente, a gennaio, disse che non bisognava «mettere limiti ai mandati» nemmeno in Regione; ma a febbraio evitò accuratamente di andare con De Luca in corteo a Roma per chiedere i fondi al governo, mentre a luglio è sceso in piazza per il Pride a Napoli. E, ora, non pare abbia intenzione di proporsi come candidato alla Regione, soprattutto se De Luca correrà ad ogni costo nel 2025, come il governatore ha appena confermato di voler fare. 

In questo furbo vedo-non-vedo, Manfredi dimostra di possedere infatti un tratto peculiare: esercita il suo potere in modo non testosteronico. Una rarità, nel centrosinistra attuale. Basti vedere il modo col quale ha reagito all’unico assalto, sinora, alla sua candidatura alla guida dell’Anci. Quello da parte del sindaco di Milano Sala, che ha detto di preferire un nome del Nord e gli ha contestato la salottitudine romana. Attacchi al quale Manfredi non ha risposto: ha solo fatto dire che a Palazzo San Giacomo c’era sorpresa per la surrealtà del dibattito imperniato su beghe personali e sulla contrapposizione tra Sud e Nord. È così che in questi anni Manfredi non s’è fatto un nemico. Il suo carattere è quel- lo del ponte, non del muro. La sua attitudine è tessere, non bruciare. Una volta era diffusa, in politica, ora meno. «Se vuoi costruire qualcosa, devi sapere ascoltare le persone e far capire di rispettarle», usa ripetere. Così, dopo essere stato uno dei pochi a fare da tramite tra Enrico Letta e Giuseppe Conte quando smisero di parlarsi, va a finire abbia instaurato contemporaneamente buoni rapporti sia con Elly Schlein che con Raffaele Fitto. Con il commissario europeo, ormai ex ministro meloniano alla Coesione e al Pnrr, sin da subito, ha detto di non avere dubbi di riuscire a «lavorare bene», dimostrandolo poi in ogni sede, anche prima di diventare commissario del governo per il risanamento di Bagnoli. Quanto al Pd, nel lontano luglio 2023, non a caso, si è ospitata proprio a Napoli, alla fondazione Foqus, la prima grande iniziativa organizzata dalla segretaria dem contro l’autonomia differenziata (proprio De Luca quella volta era il grande assente, solo dopo si è infuocato anche lui per la lotta alla legge Calderoli). Sempre a Napoli, nella tarda primavera del 2022, Dario Franceschini aveva presentato proprio col sindaco il suo primo libro politico, al Tennis Club Napoli, dando così il via alla sua prima campagna elettorale come candidato per il Senato nella città partenopea. Il campo largo di Manfredi non risente insomma del clima, anzi è perfettamente anticiclico, si direbbe eterno. Così Fulvio Martusciello, oggi capogruppo di Forza Italia al Parlamento europeo e molto vicino a Tajani, ha appoggiato la sua candidatura alla guida dell’Anci ben prima che il sindaco di Napoli si trovasse a brindare a casa Palombelli-Rutelli, con Conte, Bettini e Gianni Letta. E anche la rete del sostegno dei sindaci, che Manfredi cura da un anno, oltre che il Sud, con ad esempio il nuovo sindaco di Bari Leccese o di Catanzaro Fiorita, dopo l’endorsement dell’ormai ex sindaco di Pesaro Ricci prevede incursioni al Nord, come il primo cittadino di Parma, Guerra, ex braccio destro di Pizzarotti. Proprio i sindaci, del resto, sono uno dei bersagli prediletti del governo Meloni. Un buon vivaio da aggregare, direbbe Mastella.