Inasprire le sanzioni non è la strada per garantire la sicurezza. Bisogna agire sulle cause dell’impennata di crimini. Parla Cristina Curatoli, presidente dell’Anm di Napoli

Salvo clamorose sorprese, a breve il nuovo Decreto sicurezza diventerà legge. Sul tema si è aperto un acceso dibattito e sia l’Unione delle Camere Penali sia l’Associazione italiana dei professori di Diritto penale hanno fortemente criticato le nuove norme. Cristina Curatoli, presidente dell’Anm di Napoli, che opinione ha? L’Anm ha assunto una posizione?

«L’Anm napoletana su questo tema non si è ancora pronunciata. Posso esprimere invece una mia valutazione personale, anche come pm. La prima sensazione è che si introducono norme che, in gran parte, riguardano condotte in qualche modo già punibili in contesti di altre fattispecie normative, quando invece l'inserimento di nuove norme dovrebbe colmare dei vuoti e delle lacune che qui, a mio avviso, nella maggior parte dei casi, non ci sono. Dall’altro, l’introduzione di nuovi reati può comportare il rischio di sovraccaricare ulteriormente il sistema giudiziario. Nel nuovo pacchetto sicurezza si intravede, per esempio, l’esigenza di rafforzare la tutela delle forze dell'ordine, che condivido, ma credo che l’obiettivo debba essere perseguito con progetti a lungo termine. Più che introdurre nuovi reati deve essere maggiormente garantita la certezza e l’effettività della pena. Purtroppo, oggi abbiamo condanne a distanza di molti anni rispetto al fatto. Ciò fa sì che comunque chi commette reati abbia in qualche modo un senso di impunità perché una pena a distanza di anni dal fatto non viene percepita come tale e perde il suo effetto deterrente. Infatti, siamo in presenza di tanti reati che continuano a essere commessi da recidivi, il che dimostra che quello che manca oggi è l'effettività della pena. Bisogna spingere verso una semplificazione del processo penale e investire nell’informatizzazione, fornendo le risorse necessarie. Ritengo che non sia l'inasprimento della pena ad avere un effetto deterrente. Può averlo tutt'al più rispetto a reati diversi, come quelli commessi  dai cosiddetti colletti bianchi, i crimini finanziari o crimini comunque commessi con premeditazione là dove effettivamente ci può essere una valutazione sulle conseguenze previste dalla legge in termini di pena, ma non credo che elevare le pene possa avere influenza sui reati che sono dettati o da disagio sociale e da tossicodipendenza o da altre situazioni difficili e, dunque, dissuadere dal commettere il reato. Qui sarebbe importante che il legislatore intervenisse per far sì che si abbia una pena certa ed effettiva, investendo di più in tutta una serie di strumenti come pene alternative e miglioramenti dell’edilizia carceraria».

 

Nel corso degli ultimi 15 anni sono stati varati numerosi cosiddetti pacchetti sicurezza. Crede che quest’ultimo sia come i precedenti oppure presenti maggiori (o eventualmente minori) criticità?

«È evidente che i decreti sicurezza in qualche modo rispecchiano l'approccio culturale e politico della maggioranza del momento. A mio parere bisogna porre ancora di più l’attenzione su quelli che sono oggi crimini pericolosi o che ledono importanti interessi, come quelli commessi nell’ambito della criminalità informatica. La digitalizzazione e il lavoro a distanza hanno favorito enormemente condotte criminali che vengono compiute con mezzi informatici e noi siamo molto indietro, nel campo degli strumenti investigativi, sia come procure sia come forze dell’ordine. Certo, si fa già tanto e ci sono stati ottimi risultati giudiziari ma non è abbastanza perché purtroppo si investe poco nella formazione delle forze dell'ordine e anche nelle risorse necessarie, soprattutto informatiche, per poter contrastare una criminalità che è complessissima e rispetto alla quale si arriva spesso a distanza di tempo dai fatti. Nonostante i danni siano enormi se solo si pensa a individui e aziende coinvolte e alla irreversibilità delle conseguenze. Altro allarme è quello della criminalità minorile: bisogna creare e lavorare su un doppio binario garantendo di più la giustizia riparativa, con percorsi alternativi per i reati minori e in qualche modo cercare di investire molto in un approccio integrato che riguardi non soltanto la pena. Per esempio, favorendo l'inserimento dei minori in una serie di attività che diano loro la concretezza di un'alternativa al crimine. Da anni assistiamo alla emanazione di diverse riforme in materia di giustizia, ma se si fanno le riforme e non si investe nella realizzazione delle stesse, è tutto inutile».

 

Pensa che le nuove disposizioni normative abbiano una finalità e un colore anche ideologico? Che le nuove norme siano state immaginate per una parte specifica della popolazione?

«Non voglio dare un giudizio politico. La mia è più una valutazione tecnica che però non può non fare a meno di valutare come da poco sia stato abolito un reato che a nostro avviso è importante, qual è l'abuso d'ufficio, che consentiva un controllo sulla trasparenza dell'agire pubblico. È stato completamente eliminato a fronte invece dell’introduzione di reati nuovi, con pene anche elevate. L’abuso d’ufficio rappresentava un reato sentinella importantissimo anche perché consentiva di risalire a fenomeni corruttivi e molto spesso alla stessa criminalità organizzata. Si è privato il cittadino di un importante strumento di difesa contro le ingiustizie connesse all’azione pubblica».

 

Tra le nuove norme oggetto del Ddl quali le sembrano meno condivisibili e quali invece ritiene apprezzabili?

«Mi preoccupano molto quei reati che non hanno una descrizione specifica della condotta da colpire. Faccio l'esempio della resistenza passiva inserita nel reato di rivolta nelle carceri. Nel testo non c’è una particolare specificazione del tipo di condotta, quindi viene da chiedersi per esempio se può essere punibile il detenuto che non mangia perché si oppone a una condotta di un agente penitenziario. Intendo dire che in questo modo si lascia un margine troppo ampio di discrezione nella valutazione di queste condotte. Questa norma mi preoccupa molto, così come quella che riguarda le modifiche relative al regime detentivo per le donne con prole sotto i tre anni, perché abbiamo delle carceri sovraffollate e condizioni di detenzione difficili, come testimoniato dai numerosi suicidi e dai momenti di tensione che si registrano. Nel circuito carcerario passano soggetti  tossicodipendenti o persone che dovrebbero andare nelle Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza), situazione determinata dall’assenza di sufficienti percorsi alternativi, di rieducazione, di riabilitazione. Bisogna investire in questo. Oggi le Rems non sono per nulla sufficienti a supportare il numero di soggetti che vi sono destinati, e questo crea un’insufficienza pericolosissima nella gestione dei detenuti. A mio avviso, su questo tema, si va nella direzione opposta a quella che dovrebbe essere la soluzione il problema».

 

Ritiene che alcune di queste norme siano in contrasto con principi costituzionali?

«Diciamo che il problema è ravvisabile proprio nella mancanza di determinatezza di alcune condotte soprattutto allorquando certe condotte sono collegate al delicato tema del diritto alla libera manifestazione del pensiero. Tra le nuove norme quelle che possono in qualche modo coprire un vuoto di tutela individuo quella dell'occupazione degli immobili, là dove viene introdotta una sorta di reato di rapina della casa. Si parla di occupazione con violenza e minaccia per cui si richiama l’attenzione su fatti che si innestano in circuiti criminali, come anche quello della criminalità organizzata, e che vedono vittime soggetti vulnerabili, come spesso sono le persone anziane. Ecco forse questa norma può contribuire a coprire effettivamente un parziale vuoto di tutela».

 

Credo che tutti possiamo essere d’accordo che la sicurezza è un valore fondamentale nelle democrazie e che lo Stato debba agire per garantire la tranquillità e la pace dei suoi cittadini. Per lei cos’è la sicurezza?

«Penso che la sicurezza debba essere intesa come un concetto ampio di garanzia del benessere e dell’incolumità dei cittadini, piuttosto che un concetto diretto a colpire condotte spesso determinate da disagio sociale. Garantire la sicurezza significa soprattutto cercare di lavorare molto di più sulla funzione preventiva della pena, cercando di aumentare gli strumenti di prevenzione rispetto ai reati. Si è parlato molto ultimamente della necessità di aumentare le telecamere. Questo non è solamente un aiuto alle indagini ma svolge anche una funzione preventiva, perché chi si appresta a compiere un reato quando sa che c’è il rischio di essere individuato e catturato, probabilmente si ferma prima. Quindi io penso che la sicurezza debba essere garantita con delle misure di prevenzione più efficaci e soprattutto lavorando molto sui fenomeni di violenza oltre che su quelli legati a stati di disagio sociale, di povertà o di tossicodipendenza».

 

Nel corso di quest’ultima legislatura sono state introdotte numerosissime nuove ipotesi di reato. Che impatto hanno avuto nell’attività della procura? Vi è stato un significativo incremento del numero di denunce? O di notizie di reato?

«Non credo che il problema sia quello di ingolfare le procure o di aumentare il carico di lavoro perché molte condotte, anche se sotto altra forma, già rientravano nel lavoro delle procure. Talvolta c’è la possibilità che, introducendo nuove norme, il cittadino si presti a denunciare di più, penso che l’aumento del numero di denunce sia più spesso un segnale di maggiore fiducia dei cittadini nella giustizia, piuttosto che necessariamente di una maggiore insicurezza. Abbiamo l'esempio del Codice rosso che ha avuto l'effetto di spingere molto di più le donne a denunciare».

 

Sembra essere iniziata una nuova stagione di fibrillazione – se non di acceso scontro – tra politica e magistratura. Perché secondo lei in Italia vi è da decenni un rapporto conflittuale tra la magistratura e la politica?

«Innanzitutto penso che debba essere tutelato maggiormente il sacrosanto  principio di separazione dei poteri, principio che la politica deve garantire con tutte le sue forze, perché l'indipendenza e l'autonomia della magistratura, principi alla base di uno Stato di diritto, sono necessari per una efficace tutela dei diritti. Le recenti critiche di collateralismo con la politica minano in modo pericoloso la fiducia dei cittadini nella magistratura. Allo stesso modo ritengo in modo altrettanto netto che la magistratura non debba fare politica. Non c'è dubbio che le decisioni giudiziarie possano essere giuste o sbagliate, gli errori esistono in tutte le professioni, però esistono i rimedi, ovvero i mezzi di impugnazione».

 

Cosa pensa della riforma sulla separazione delle carriere?

«Oggi l'indipendenza della magistratura non è solamente minata dagli attacchi di collateralismo con la politica sui media, ma indirettamente può essere minata da tante piccole o grandi riforme come la separazione delle carriere che a mio parere è pericolosissima perché l'indipendenza dei pubblici ministeri passa anche attraverso la necessità che si formino nella medesima cultura della giurisdizione dei giudici. Bisogna tutelare la figura di un pubblico ministero che abbia come unico obiettivo quello dell'accertamento della verità, un pubblico ministero per il quale l’assoluzione non è una sconfitta e la condanna non è una vittoria. Se il pubblico ministero viene sganciato dalla cultura della giurisdizione ci può essere il rischio di creare una figura di superpoliziotto avulso in qualche modo dalla giurisdizione. Ed è questo che temiamo realmente. Il passaggio di funzioni dal giudicante al requirente è un falso problema perché nella pratica già non avviene più se non in una percentuale minima di casi».