Le emissioni di CH4 derivano per oltre un terzo dal comparto agroalimentare, con in testa gli allevamenti intensivi. L’allarme di Greenpeace sugli effetti climatici

CH4. Una “sigla” sino a oggi quasi sconosciuta, ma con la quale dovremo presto fare i conti se vorremo davvero intervenire per frenare il riscaldamento globale. Certo, negli ultimi anni, a forza di disastri, tantissimi hanno finalmente imparato a conoscere il funzionamento della CO2. Ma il CH4 è la nuova frontiera nella lotta epocale del mondo per la propria sopravvivenza: la “sigla” indica la formula chimica che, mettendo assieme un atomo di carbonio e quattro di idrogeno, dà vita al metano. Un gas a effetto serra molto più potente – nel breve periodo – dell’anidride carbonica. Le cui emissioni di natura antropica per oltre un terzo derivano dal comparto agroalimentare, con in testa gli allevamenti intensivi: va da sé allora che sarebbe indispensabile ridurre la produzione e il consumo di carne e prodotti lattiero-caseari, se si vogliono raggiungere gli obiettivi climatici stabiliti dagli accordi di Parigi. Una asserzione tanto lapalissiana quanto sottaciuta, su cui accende i fari un nuovo Report di Greenpeace Nordic. Che va oltre il semplice calcolo dell’impronta climatica del settore, osando un accostamento innovativo e dirompente: dimostra – dati alla mano – come le emissioni di 29 aziende mondiali zootecniche, tra cui un’italiana, siano addirittura «comparabili a quelle prodotte dalle cento maggiori multinazionali di combustibili fossili». Un contributo, da quanto emerge, fino a oggi sottovalutato e ignorato nel pensare strategie di conversione dei sistemi produttivi in senso ecologico, in un momento in cui ogni frazione di grado centigrado in più o in meno fa la differenza. Si pensi che secondo l’Ipcc (il Panel che per le Nazioni Unite si occupa di cambiamento climatico) in un Pianeta che si riscalda di 1,5° C – anziché due, quindi con una differenza di mezzo grado – fino a dieci milioni di persone in meno sarebbero esposte al rischio di innalzamento del livello del mare. E al 50 per cento della popolazione mondiale sarebbe risparmiata una carenza idrica a causa di eventi climatici come la siccità. 

 

Crisi climatica, il peso del metano
A preoccupare gli scienziati oggi sono quindi (soprattutto) le emissioni di metano, che continuano ad aumentare in maniera vertiginosa: «Più 20 per cento in vent’anni, con valori mai così elevati da quando esistono gli strumenti di rilevazione», fanno notare i ricercatori del Global Carbon Project. Che pongono l’accento su come questo gas a effetto serra «sia ormai 2,6 volte maggiore rispetto al periodo preindustriale». Una crescita del tutto inconciliabile con qualsiasi percorso di transizione ambientale. Il CH4 è infatti un attore di primo piano del riscaldamento globale perché agisce – cioè “scalda” l’atmosfera – in tempi brevi, ottanta volte di più dell’anidride carbonica. Più metano emettiamo, insomma, più velocemente e con maggiore potenza superiamo la soglia limite di aumento della temperatura terrestre fissata a Parigi. «Sul podio degli inquinatori da CH4 salgono le industrie di carne e latticini che da sole emettono più del 30 per cento di tutto il metano di origine antropica», spiega Federica Ferrario, responsabile Agricoltura di Greenpeace Italia. L’associazione ambientalista ha da poco diffuso – a livello mondiale – i risultati di un nuovo Rapporto effettuato modellando lo scenario della Fao sul futuro dell’alimentazione in base agli attuali standard di produzione e consumo. E ha dimostrato che, se non cambia nulla e continuiamo a produrre e mangiare carne e latticini nella stessa quantità, il comparto avrà sulle spalle un aumento della febbre del Pianeta pari a 0.32° C. «Numeri che possono sembrare piccoli – continua Ferrario – ma che invece hanno un peso enorme sulla vita delle persone». Solo per fare un esempio: «Se riuscissimo a evitare un aumento di 0,3° C della temperatura della terra, potremmo ridurre l’esposizione al caldo estremo per 410 milioni di persone. Con lo 0,1 evitato, salveremmo il 2 per cento dei ghiacciai», si legge nello Studio.

 

Carne e latticini come le “Big oil”
Il Rapporto fa di più e mostra, per la prima volta, come le emissioni di metano stimate di 29 grandi aziende della zootecnia, calcolate appositamente per il Report, concorrono con quelle delle “Big” dei combustibili fossili. Conquistando anche posti di rilievo in una potenziale classifica di inquinatori che includa entrambi i settori. La Jbs, per citare il più grande produttore di carne del mondo, accusato più volte di favorire la deforestazione dell’Amazzonia – da cui l’Italia prende per esempio la bresaola Rigamonti – finirebbe quinta. La holding italiana Cremonini, che tramite la controllata Inalca è uno dei maggiori player europei per la produzione di carne bovina e controlla numerosi marchi nazionali come Montana, Manzotin, Fiorani e Montagna, sessantottesima. «Si stima – secondo il Report – che le cinque maggiori aziende dell’agroalimentare nel mondo (Jbs, Marfrig, Minerva, Cargill e Dairy Farmers of America) emettano globalmente più metano di Bp, Shell, ExxonMobil, TotalEnergies e Chevron messi insieme». Per comprendere meglio la portata di queste comparazioni è bene ricordare che in cima all’elenco c’è un colosso del fossile come Gazprom, seguito da National Iranian Oil Co. e da Coal India Ltd. «Per tanto tempo abbiamo osservato la crescita senza freni della produzione intensiva di carne, come se il settore fosse esente da responsabilità verso la crisi climatica, ma non è così», commenta la responsabile Agricoltura di Greenpeace Italia. Che, al pari dei suoi colleghi internazionali, chiede ai governi di «guidare e investire in un cambiamento del sistema che abbandoni la sovrapproduzione di carne e prodotti lattiero-caseari, sostenendo agricoltori e lavoratori verso una giusta conversione». Nel nostro Paese anche tramite una proposta di legge che l’organizzazione sta sostenendo insieme a Medici per l’Ambiente, Lipu, Terra! e Wwf. Anche perché il beneficio che si avrebbe dalla riduzione del metano sarebbe immediato.

 

Il lato buono del CH4
È legato a una caratteristica propria del CH4. Che così come scalda con forza e velocemente, sparisce altrettanto in fretta. Resta nell’aria di certo molto meno – 12/20 anni – rispetto all’anidride carbonica, stantia per secoli. «Intervenire sulle emissioni di metano dell’agroalimentare – conclude Ferrario – permetterebbe, non solo di incidere direttamente sull’aumento della temperatura terrestre» (produciamo meno, inquiniamo meno) ma anche di rallentare il riscaldamento del Pianeta, smaltendo il metano accumulato fino a oggi. Creando così una sorta «di effetto raffreddamento che ci farebbe guadagnare un po’ di tempo per compiere l’indispensabile transizione energetica dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili». A oggi la quantità di carne prodotta è quasi cinque volte maggiore di quella dei primi anni Sessanta: in media nel mondo se ne consumano 34,5 kg a testa l’anno, ma con grandi differenze tra i Paesi. In Italia il consumo medio è di quasi 80 kg pro capite. Sessanta anni fa erano appena ventuno.