Il patto non tiene. Sull’autonomia la scure della Cassazione con il referendum, premierato a passo lento. E la giustizia cammina grazie a parte dell’opposizione

Premierato, autonomia differenziata, riforma della magistratura. Tre riforme, ciascuna sotto una bandierina di partito. È il patto stipulato – fra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia – subito dopo la nascita del governo Meloni. Di quelle tre riforme, è l’autonomia differenziata maggiormente in sofferenza, dopo i rilievi della Consulta e il primo via libera, quello della Cassazione, al referendum abrogativo chiesto dalle opposizioni. La legge Calderoli, nasce da un accelerazione imposta nei mesi scorsi dalla Lega agli alleati di governo, per affidare una lunga serie di nuovi poteri alle Regioni, con un disegno di legge presentato come l’attuazione delle nuove disposizioni costituzionali introdotte all’inizio del 2001 dal centro-sinistra, allargandone al tempo stesso la portata. Si trattava, dopo le elezioni del 2022, di riprendere il filo della riforma federalista ma con un testo subito bocciato, perché considerato divisivo fra Nord e Sud, dalle opposizioni e dalle Regioni guidate dal centro-sinistra, che intraprendevano la via referendaria. Si aggiungeva la contrarietà di Forza Italia ad attuare la nuova autonomia prima che fossero definiti per tutte le Regioni gli standard per il godimento dei diritti civili e sociali, i Lep. Alla fine, lo scorso novembre, il provvedimento è stato svuotato in gran parte dalla Consulta, che ha ritenuto incostituzionali alcune parti salienti della riforma e da riscrivere in Parlamento altre norme non meno rilevanti. Ora l’avvicinarsi del referendum galvanizza Pd, Avs e + Europa, ma non preoccupa la Lega, pronta alla sfida del voto su una legge cui non intende rinunciare. Il rischio, per gli alleati di Governo (che davanti alla decisione della Cassazione non hanno nulla da festeggiare contrariamente a Calderoli), è di essere trascinati in una battaglia referendaria dall’esito molto incerto. Sempre che arrivi anche il via libera definitivo allo svolgimento del referendum da parte della Consulta a cui, a gennaio, spetterà l’ultima parola: l’ammissibilità costituzionale.

 

Si parte da quattro scenari che, in punto di diritto, il costituzionalista Tommaso Frosini, riassume così: «Primo, la Corte Costituzionale dichiara il referendum inammissibile, e tutto finisce lì; secondo, la Corte lo dichiara ammissibile e il Parlamento prova a modificare la legge Calderoli nella speranza che la Cassazione stabilisca che il provvedimento non sia più quello investito da un referendum che perciò va ritenuto superato; terzo, dopo il via libera della Consulta al referendum, il Parlamento non fa nulla, si celebra il referendum con il raggiungimento del quorum, vince il sì e la legge è abrogata; quarto, il referendum non raggiunge il quorum e perciò è nullo». Fratelli d’Italia aveva condiviso la legge Calderoli anche in cambio del via libera della Lega al premierato. Ma anche quest’ultimo non naviga in buone acque, dopo il primo sì di un ramo del Parlamento, il Senato, all’inizio della scorsa estate. La riforma costituzionale incentrata sull’elezione diretta del premier è ferma alla Camera, all’interno della commissione Affari costituzionali. Si va avanti con le audizioni degli esperti, ma non c’è la volontà politica del centro-destra di accelerare. A differenza di soli sei-sette mesi fa, quando si progettava di arrivare al referendum confermativo, prima delle elezioni politiche a scadenza naturale del 2027, nella convinzione di Palazzo Chigi che il voto popolare, ritenuto prevedibilmente positivo, soprattutto per l’istituto dell’elezione diretta del premier, avrebbe rafforzato il governo. Poi il colpo di freno dovuto a un dubbio sull’esito del referendum ma anche alla necessità di accompagnare la riforma con una nuova legge elettorale ancora lontana.

 

La ministra Casellati ripete che il testo della riforma elettorale sarà reso noto dal governo «al termine della prima lettura da parte delle Camere», cioè quando anche l’aula di Montecitorio si pronuncerà con il primo voto, una scadenza non ancora fissata, ma prevista per la prossima primavera, sempre che ne esistano le condizioni politiche. Non solo: il testo votato dal Senato è destinato ad essere modificato nella parte relativa al voto degli italiani all’estero, che altrimenti rischia di contare più del voto degli elettori residenti in Italia. Dovrebbe poi pronunciarsi il Senato, con un inevitabile allungamento dei tempi. L’unica delle tre riforme che al momento non trova ostacoli è la separazione delle carriere. L’iniziativa è partita da Forza Italia in modo politicamente trasversale, fino a ottenere il consenso di tre partiti di opposizione – Italia Viva, Azione e + Europa – ma fuori dal Parlamento le barricate dell’ Anm, in aggiunta a quelle del Pd e di Avs. Il via libera delle Camere è previsto entro la fine del 2025, in modo che il referendum confermativo si svolga nel 2026. Entro gennaio dovrebbe arrivare il sì dell’aula di Montecitorio, dopo che il testo è stato licenziato dalla commissione Affari costituzionali, presieduta da Nazario Pagano (Forza Italia) che osserva : «Abbiamo la percezione che la riforma della magistratura raccolga oggi un vasto consenso popolare. La stagione di Tangentopoli è molto lontana. Il referendum confermativo sulla separazione delle carriere, infatti, avrebbe molto probabilmente un esito positivo. Sul premierato, che dovrebbe anch’esso essere accompagnato dal referendum, si è invece aperta una riflessione». A cosa porterà lo sapremo nei prossimi mesi. Intanto, la giustizia supera in curva le altre riforme. E il patto d’inizio legislatura appare di fatto superato.