Per gestire richieste di soggiorno e rimpatri il governo non intende solo delocalizzare i centri di permanenza. Ma farne sorgere di nuovi e riaprire quelli chiusi. Tra le proteste

Delocalizzarli sì, modello Albania. Ma anche costruirne di nuovi. Per il governo, la soluzione Cpr, centri di permanenza per il rimpatrio, resta una priorità, malgrado le comunità locali, anche con amministrazioni di colore politico diverso, si contrappongano all’idea di avere questi luoghi di prigionia nel proprio territorio. Accanto a chi li rifiuta per motivi di sicurezza e ordine pubblico, per altri il cuore del problema è la gestione securitaria dell’immigrazione e la persistente violazione dei diritti umani documentata dentro ai Cpr. I centri attualmente attivi in Italia sono otto, ma l’obiettivo dichiarato è di realizzarne uno in ogni regione. Tra le nuove sedi, come annunciato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, una delle città individuate è Falconara Marittima, nelle Marche. Non è la prima volta che se ne parla. I tentativi di aprire un Cpr nella regione sono iniziati oltre vent’anni fa e ogni volta i cittadini si sono mobilitati contro. La struttura dovrebbe sorgere in un’ex zona militare collocata in un triangolo tra aeroporto, raffineria e stazione ferroviaria, ovvero la stessa area interessata da un’indagine per disastro ambientale. Secondo Valentina Giuliodori dell’Ambasciata dei diritti delle Marche, «questa collocazione serve a togliere i problemi davanti agli occhi delle persone. Dall’aeroporto, poi, il trasferimento in Albania dei migranti potrebbe essere rapido». Proprio come potrebbe accadere a Falconara, l’elemento che accomuna la maggior parte dei centri di permanenza per il rimpatrio già esistenti è che sono nascosti alla vista. Collocati spesso ai margini della città, tra le loro mura centinaia di cittadini stranieri senza permesso di soggiorno vivono in stato di detenzione e abbandono. Fuori, le mobilitazioni per chiedere la chiusura di questi centri si stanno moltiplicando. L’ultima in ordine di tempo a Torino, dove circola da mesi l’ipotesi di riaprire il centro di corso Brunelleschi, che a differenza degli altri Cpr sorge in una zona abitata e commerciale. Chiuso a marzo 2023 per le proteste dei reclusi che avevano danneggiato i locali, non manca affatto a chi vive nel quartiere: «Li sentivamo urlare, sbattere le pentole. Poi quando incendiavano i materassi vedevamo il fumo salire», racconta un commerciante della zona. Non è solo una questione di fastidi e potenziali rischi. Da quando tre anni fa il 23enne Moussa Balde si è tolto la vita nel Cpr, l’attenzione del territorio nei confronti del centro e dei diritti delle persone detenute è cresciuta. 

 

L’intera città ha reagito con manifestazioni e presidi, ripresi anche quest’anno, quando centinaia di cittadini hanno protestato per le vie del quartiere. Istituzioni, terzo settore, sindacati, medici e pastorale migranti si sono uniti in un appello per opporsi alla riapertura. «Abbiamo convissuto con questa struttura provandone vergogna, una vergogna incancellabile dopo la morte di Moussa Balde. Ora abbiamo creato una rete perché questo non debba più succedere», dice Francesca Troise, presidente della circoscrizione torinese in cui si trova il guscio vuoto dell’ex Cpr. A Milano, il centro di detenzione di via Corelli sorge verso l’uscita della città, in prossimità dell’aeroporto di Linate. La sua struttura di cemento esiste da 26 anni, ha ospitato prima un centro di identificazione ed espulsione per persone migranti, poi un centro di accoglienza. La memoria storica di molte persone che abitano il quartiere è legata a questo luogo militarizzato e inaccessibile. Per tanti il Cpr in quanto tale è inaccettabile a Milano e altrove. L’ultima manifestazione, organizzata ad aprile dalla rete No ai Cpr, ha portato in strada cinquemila cittadini.

 

Spesso sono le proteste di chi vive all’interno a diventare un drammatico catalizzatore di attenzione. «L’unico modo in cui i trattenuti si manifestano all’esterno avviene dando fuoco ai materassi. Il loro è un grido di aiuto per dire che esistono», osserva Teresa Florio, attivista della rete Mai più Lager - No ai Cpr. Quando accade, gli abitanti si attivano, segnalano l’emergenza e creano un tam tam che si propaga fuori dal quartiere. «La tendenza diffusa però è quella di colpevolizzare le persone detenute che protestano, perché l’idea comune è che se sono lì qualche reato lo hanno commesso – continua Florio – Questo perché il Cpr viene associato al carcere, anche se non è così».
Anche attorno al Cpr romano di Ponte Galeria è difficile rendersi conto che al suo interno vivono delle persone. Unico centro in Italia ad avere una sezione femminile, il centro sorge sulla via per l’aeroporto di Fiumicino, sconosciuto alla maggior parte dei passanti. Oltre le mura, gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno. Dopo il suicidio del giovane guineiano Ousmane Sylla a febbraio, un presidio di cittadini si è raduntato davanti al Cpr e l’Assemblea capitolina ha chiesto di chiuderlo. Far scoprire l’esistenza di questo luogo lontano per molte associazioni è difficile. Una maggiore consapevolezza c’è soprattutto tra i più giovani. «Quando andiamo nelle scuole a fare sensibilizzazione sul tema, troviamo molta partecipazione – dice Federica Borlizzi, avvocata della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili, che in un recente report ha denunciato le pessime condizioni igienico-sanitarie e il sovraffollamento nel Cpr di Ponte Galeria – Ragazzi e ragazze italiani di seconda generazione hanno parenti che sono passati dai Cpr e parlano di quell’esperienza con i propri compagni. Così questi luoghi, mantenuti volutamente nascosti, diventano reali».