L'intervista

«L'antifascismo è la nostra identità. Con questa destra il 25 aprile deve essere di opposizione»

di Paolo di Paolo   24 aprile 2024

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Giovanni De Luna, uno dei maggiori storici italiani lancia l'allarme: «Prestiamo attenzione alla saldatura tra apparati dell’istituzione e potere politico. È lì che vedo i rischi maggiori»

È il giorno della riscossa, scrivevano i reporter al seguito dei manifestanti in viaggio verso Milano dall’Emilia. 25 aprile di trent’anni fa. «Salite, compagni!», si urlava nei megafoni, e l’espressione, in quel lembo di tardo Novecento, non suonava eccentrica. Accostata da un cronista, una ragazza ventiquattrenne rendeva esplicite le sue preoccupazioni: «Io penso che quelli della destra vogliano riscrivere la Storia, cancellare la verità, rubarci la Costituzione…». Bisognerebbe andare a stanarla tre decenni dopo e chiederle come sta. Come la vede ora. La destra più destra di sempre è al governo, e il 25 aprile resta un’eterna questione di coscienza.

 

 

Alla distesa impressionante di ombrelli nella Milano uggiosa del 1994 – primo governo Berlusconi – si richiamano in molti, da sinistra, per questo 25 aprile in arrivo. Ma ogni Liberazione, anno dopo anno, decennio dopo decennio, ha il suo timbro e il suo colore, la sua temperatura emotiva e politica. A proposito di quella attuale, ha le idee più che chiare Giovanni De Luna, tra i maggiori storici italiani, a lungo docente a Torino. Si è occupato a più riprese di storia della Resistenza (“La Resistenza perfetta” è il titolo di un suo volume del 2015 pubblicato da Feltrinelli); ha approfondito la storia del Partito d’Azione. Gli chiedo di aiutarci a mettere a fuoco il 25 aprile del 2024.

 

Giovanni De Luna

 

 

«Partirei con il constatare una contraddizione in termini: la destra al governo ha giurato sulla Costituzione, il cui valore fondante è l’antifascismo. Non dichiararsi antifascisti pur avendo giurato su una Carta nata dopo vent’anni di privazione della libertà, di ossessione dell’obbedienza e di violenza politica è surreale. Questo dato dovrebbe produrre un serio imbarazzo, ma è chiaro che per smania di potere e di occupazione di poltrone le donne e gli uomini della destra meloniana non si formalizzano, restano ambigui e sono pronti a qualsiasi sotterfugio».

 

 

O pronti a cambiare la Costituzione?
«Tentativi di mettere mano alla Costituzione ce ne sono stati tanti in questi anni, ma nessuno ha osato toccare finora la prima parte, i primi dodici articoli. Stiamo a vedere».

 

 

La destra al governo fatica a dichiararsi antifascista, ma questo non vuol dire che si definisca o sia definibile come fascista.
«Finora non c’è stato nessun esplicito riferimento alla violenza come strategia di consolidamento del potere politico. Qualche episodio allarmante di rigurgito squadrista, ma sporadico (penso all’assalto alla sede della Cgil), non è sufficiente a individuare un’identità fra destra al governo e fascismo storico. Sul piano dei valori, invece, la differenza è più sfumata: slogan xenofobi come “prima gli italiani”, chiusura dei porti, diffidenza per i valori dello Stato laico sono riconducibili alla galassia valoriale del fascismo storico».

 

 

Si può stare tranquilli?
«No, occorre vigilare continuamente. E prestare attenzione alla saldatura tra apparati dell’istituzione – esercito, forze dell’ordine, magistratura – e potere politico. È lì che vedo i rischi maggiori».

 

 

Parlavamo di imbarazzi: il 25 aprile, già lo scorso anno, ha creato qualche mal di pancia nemmeno troppo nascosto nelle figure della destra con ruoli istituzionali.
«Non è e non è mai stata una data pacifica. Se ripercorriamo attraverso la lente del 25 aprile il quadro etico-politico degli ultimi decenni, ne abbiamo la riprova. Negli anni Cinquanta si trattava di una ricorrenza minoritaria: al decennale della Liberazione, il cardinale Montini futuro Papa si preoccupava di commemorare morti “tutti uguali” mentre l’allora ministro della Pubblica Istruzione inviava una circolare che invitava le scuole a celebrare l’anniversario della nascita di Guglielmo Marconi. Il 25 aprile resta a lungo la festa di una minoranza, e nella prima stagione della Guerra fredda, con un’opposizione praticamente ghettizzata, viene agitato lo spauracchio anticomunista e questo basta a fare ombra. Bisogna aspettare, negli anni Sessanta, le parole di Saragat che riconosce esplicitamente nella Resistenza la matrice dello Stato repubblicano. La Liberazione si politicizza e si accende negli anni Settanta; gli slogan recitavano “chilometri e chilometri di nastri tricolori non cancelleranno il rosso sangue delle nostre bandiere”… Negli anni Ottanta, mentre Craxi rispolvera Garibaldi, le celebrazioni sono appiattite su una certa esteriorità».

 

 

E arriviamo a quel 1994 richiamato in vista della manifestazione milanese. Che aria tirava?
«Il forte attacco revisionista per mano del centrodestra allora al governo fu vissuto come un risveglio di consapevolezza nella sinistra antifascista. Che portò centinaia di migliaia di persone a scendere in piazza a Milano sotto una pioggia battente».

 

 

 

 

Quella filmata da Nanni Moretti in un episodio di “Aprile”.
«C’era un collante di forte contrasto con il governo in carica, con la sua fisionomia politica e morale».

 

 

Lo stesso che può funzionare oggi?
«Con questa destra al potere il 25 aprile assume più che mai le caratteristiche di un momento di esplicita opposizione. E di ricompattamento della sinistra intorno a certi valori».

 

 

Mentre la destra insiste a difendere il proprio pantheon. È bastato un romanzo sui fatti di Acca Larentia (quello di Valentina Mira, “Dalla stessa parte mi troverai”) per tornare a sentir parlare di «odio antifascista» e di «camerati caduti».
«Io credo che ognuno abbia diritto di piangere i morti della propria parte. Ma questo sul piano privato. Nello spazio pubblico non è accettabile l’equidistanza o l’equiparazione. Insisto: è come contraddire apertamente il patto costituzionale. E gli scherani della destra che confondono i piani per ricondurre a violenza difensiva quella della loro parte politica sono in malafede. Tanto la storiografia più solida quanto la magistratura hanno certificato le premesse della strategia della tensione nella strage di Stato del 1969 basata sulla manovalanza neofascista. Le istituzioni devono recintare uno spazio di – come chiamarla? – religione civile in cui una certa memoria proiettata sul piano pubblico non può e non deve esistere. In Francia perfino uomini di destra come Chirac o Sarkozy non hanno avuto esitazioni rispetto alla matrice della Repubblica: ci si riconosce in De Gaulle, non in Pétain. Non c’è dubbio, non c’è ambiguità. E da noi?».

 

 

Da noi si minimizza. C’è una vignetta profetica di Altan in cui un bambino chiede al padre: «Babbo, che cosa è successo il 25 aprile?». Il padre risponde: «Niente».

«Proprio per questo occorre insistere sulla straordinarietà e unicità dell’evento. Non basta dire che il 25 aprile 1945 è la fine della guerra. Il termine del conflitto mondiale ha molte date, spalmate sul calendario fra il settembre 1943 e la tarda primavera del 1945. Ma quella data è speciale perché rende manifesto quello che non esito a chiamare il miracolo organizzativo della Resistenza italiana. Il 25 luglio del 1943, alla caduta del regime, i partiti antifascisti non esistono. A Torino ad esempio i rappresentanti dei partiti sono rinchiusi nello studio di un avvocato a discutere di un proclama, se nel manifesto mettere la parola libertà e la parola pace, perché quest’ultima avrebbe urtato le scelte militari del governo Badoglio. Mentre i leader si perdono in queste discussioni inutili, il popolo festeggia la caduta del dittatore raggiungendo le carceri per liberare i detenuti politici. Venti mesi dopo la situazione è completamente cambiata: agli ordini dei partiti novemila fra uomini e donne, perfettamente inquadrati nelle formazioni partigiane, arrivano a Torino certificando la legittimazione definitiva dei partiti in uno dei momenti più drammatici della nostra storia come quello della conduzione di una guerra civile. Quella insurrezione è la certificazione, ripeto, di un miracolo organizzativo e morale. Lo riconoscerà con dignità De Gasperi alla Conferenza di Pace di Parigi nel famoso discorso dell’agosto 1946 (“Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me…”); e d’altra parte ha davanti agli occhi i segni della autentica febbre di mobilitazione che aveva portato cittadine e cittadini a votare in massa al referendum istituzionale del 2 giugno. Il 25 aprile è questo, è l’alba di una storia nuova».

 

 

L’anno prossimo scoccheranno gli ottant’anni. Sarà diverso celebrare questa data in un paesaggio sempre più spopolato di testimoni?

«È inevitabile. E non è detto che sia negativo. La mole di fonti, di documenti è enorme. La testimonianza è utile, ma – come sapeva bene Primo Levi – corre anche il rischio della ripetizione inerte, della cristallizzazione, dell’autoindulgenza narcisistica. L’“io c’ero” ha la sua forza, ma rischia anche di tagliare fuori chi non ha potuto raccontare e soprattutto chi non c’era».

 

 

Ovvero le giovani generazioni, con anagrafe ormai largamente post-novecentesca.

«La fine dell’era del testimone non deve spaventarci. Bisogna continuare sì a studiare, ad approfondire, ma soprattutto a raccontare. Non bastano gli archivi: occorre farsi mediatori nel senso letterale del termine, consentire al passato di transitare nel presente, coinvolgendo anche una dimensione emotiva. Dirò così: facendo battere il cuore delle persone. Non passa solo dai libri la coscienza della straordinaria eredità morale e politica del 25 aprile».