Affari di casta

La riforma beffa del Parlamento: i seggi sono di meno, i costi sono gli stessi

di Sergio Rizzo   2 maggio 2024

  • linkedintwitterfacebook

Il numero di eletti si è ridotto del 36,5 per cento, ma le dotazioni finanziarie di Camera e Senato non sono calate di un centesimo. Ed è solo un assaggio degli scandali raccolti in un nuovo libro-inchiesta sul potere degli intoccabili

Le nuove gestioni delle Camere in formato ancien régime debuttano come si faceva una volta. Con un grazioso presente agli onorevoli. Un paio di mesi dopo le elezioni del 25 settembre 2022 il bonus per l’acquisto di smartphone e tablet viene innalzato da 2.500 a 5.500 euro. Ma sono strumenti di lavoro, che diamine! Senza i social media che cosa farebbero i nostri eletti? Il presidente del Senato porta a casa ogni mese poco meno di 19.000 euro netti, compresi 3.500 di diaria e 5.830 di rimborsi. Il suo collega della Camera sta invece intorno ai 18.000 euro netti, perché i rimborsi sono meno ricchi. 

 

Un deputato normale, qual è per esempio Piero Fassino, guadagna una cifra più bassa, naturalmente. Ai circa 5.000 euro netti al mese dello stipendio non può infatti sommare l’indennità aggiuntiva spettante al presidente (4.223 euro netti). Ma neppure quella che tocca ai vicepresidenti delle Camere, ai questori e ai presidenti delle commissioni. Per questi ultimi la cifra da aggiungere alla paga mensile è di 2.227 euro lordi, corrispondenti a 1.269 netti. A luglio 2023 il beneficio di un’indennità aggiuntiva identica a quella stabilita per i presidenti delle commissioni è stato esteso ai capi dei gruppi parlamentari.

 

Molti di loro hanno però rinunciato, anche perché i soldi dovrebbero essere presi non dalle risorse del Parlamento, bensì dai fondi degli stessi gruppi. E qui si svela il primo clamoroso bluff del taglio del numero degli onorevoli. Lo stipendio di deputati e senatori è fermo da anni e l’inflazione ne ha mangiato un discreto pezzo. Ma 5.000 euro netti al mese, più annessi e connessi che portano il totale fra quota 12.000 e 14.000 secondo i casi, non si possono considerare una paga da miseria. Anche in rapporto ai risultati del lavoro di molti fra gli eletti. 

 

Così non la pensa evidentemente Fassino, che il 2 agosto 2023, mentre si vota il bilancio interno di Montecitorio, si alza in piedi sventolando il cedolino: «L’indennità che ciascun deputato percepisce ogni mese dalla Camera è di 4.718 euro al mese. Si tratta di una buona indennità ma non è certamente uno stipendio d’oro». E si astiene.

 

Un tafazzismo che fa correre un brivido lungo la schiena di tutta la sinistra, dove si rivedono balenare i forconi di chi una somma simile la vede in sei mesi. Quando va bene. Ma se l’ex segretario dei Democratici di sinistra avesse letto con attenzione il bilancio della Camera prima di quella discutibile iniziativa, avrebbe magari potuto apprezzare su un altro piano la generosità dei contribuenti italiani verso i loro eletti. 

 

Perché con 230 deputati in meno, come conseguenza del taglio dei seggi voluto dal Movimento 5 Stelle nella legislatura precedente, ma votato con masochistico entusiasmo anche dal Pd, i soldi destinati ai gruppi parlamentari sono rimasti gli stessi.

 

Alla Camera presieduta da Lorenzo Fontana lo stanziamento è di 30.870.000 euro: esattamente come nel 2022, nel 2021, nel 2020. E se dividiamo questa somma per 400, quanti sono i deputati, fanno 77.175 euro a cranio. L’anno, ovviamente. Cioè 28.175 euro in più rispetto ai 49.000 pro capite della Camera con 630 seggi. L’aumento reale è del 57,5 per cento. Ancora meglio al Senato. Lo stanziamento per i gruppi, rimasto identico, è di 22.120.000 euro. 

 

La divisione per 205, quanti sono i senatori (compresi quelli a vita) dopo la sforbiciata dei seggi, dà un risultato di 107.902 euro. (…) Sebbene il numero dei parlamentari sia ridotto del 36,5 per cento, le dotazioni finanziarie di Camera e Senato non si riducono di un centesimo. Cioè per i 600 deputati e senatori attuali il Tesoro dà gli stessi soldi di prima, come fossero ancora 945. Complessivamente poco meno di un miliardo e mezzo: 943.960.000 euro alla Camera, 505.360.500 euro al Senato. (…) Il peso sull’Erario di ogni seggio, tutto compreso, è di 2.359.900 euro: 861.559 euro in più. Mentre al Senato il costo è di 2.465.173 euro: 885.922 euro in più.

 

Ancora abbiamo davanti agli occhi quello striscione imbracciato dai deputati del Movimento 5 Stelle davanti al palazzo di Montecitorio in favore di telecamera dopo che la riduzione del numero dei parlamentari è diventata legge. Prima riga: «Meno 345 parlamentari». Seconda riga: «1 miliardo per i cittadini». Che per ora non hanno visto un centesimo. (…) I compensi del personale di ruolo del Senato raggiungono i 120 milioni. 

 

Per 595 persone: tanti sono i dipendenti fissi al 1° gennaio 2023. Se la matematica non è un’opinione, la media pro capite sfonda lo spettacolare tetto dei duecentomila euro. Esattamente 201.680 euro lordi l’anno. Quasi il doppio della paga di un primario ospedaliero con venticinque anni di anzianità. E almeno due volte il costo medio del personale del Parlamento europeo. Vi chiederete: ma non esiste in Italia il tetto di 240.000 euro lordi alle retribuzioni dei dipendenti pubblici? Se la media è quella, chissà quanti stipendi superano di slancio quel limite. Giusta deduzione.

 

Pochi sanno che nel Parlamento vige una regola che si chiama «autodichìa». È un principio in base al quale nella Camera e in Senato ogni decisione viene presa autonomamente e nessuno ci può mettere bocca. Né il governo né la Corte dei Conti. Vale per tutto ciò che riguarda il funzionamento delle Camere, dal trattamento economico degli onorevoli a quello del personale. Che può quindi accedere a benefici inimmaginabili per i comuni mortali. 

 

Figurarsi per gli altri dipendenti pubblici, anche di livello dirigenziale. Quando viene introdotto il tetto dei 240.000 euro, nel 2014, anche il personale del Parlamento mastica amaro. (…) Il tetto viene però introdotto in un modo così singolare che consente di superarlo. Per esempio, i segretari generali con stipendi da mezzo milione e oltre si accontentano di scendere intorno ai 360.000 euro. A differenza degli altri dipendenti pubblici, inoltre, il tetto è a scadenza. Dura solo tre anni. Poi, dal 2018, l’incubo finisce.

 

Secondo i bilanci del Senato, fra il 2001 e il 2023 il compenso medio pro capite dei dipendenti passa da 96.650 a 201.680 euro lordi l’anno. L’aumento reale delle paghe, considerando quindi l’inflazione, è del 36,2 per cento. Non così bene va alla Camera, dove lo stipendio medio sale nello stesso lasso di tempo da 91.745 a 175.986 euro lordi l’anno. Con un incremento reale nettamente inferiore: più 25,2 per cento. Ma fantascientifico per il resto del genere umano statale. (…) Brutta bestia, l’autodichìa. Brutta per le finanze pubbliche, s’intende. Non per chi se la gode.

 

I vitalizi, per esempio. Nella legislatura dominata all’inizio dal Movimento 5 Stelle era arrivata una stretta. Probabilmente abbastanza discutibile dal punto di vista tecnico. Dopo tante esagerazioni bisognava comunque aspettarsela. Ma a salvare le cose c’è sempre l’autodichìa. Perché con quel sistema non soltanto le decisioni vengono prese in autonomia, ma pure i ricorsi. Per capirci, a giudicare sulle rimostranze verso un provvedimento preso dal Parlamento sono gli stessi parlamentari.

 

C’è in Senato un organo apposito, il Consiglio di garanzia. Ne fanno parte cinque senatori: uno è presidente, e in caso di parità il suo voto vale doppio. A luglio dello scorso anno gli tocca decidere sul taglio dei vitalizi stabilito nel 2018 dalla maggioranza a Cinque Stelle, che incideva sui senatori con almeno cinque anni di mandato all’attivo prima del 2012. Sempre a partire dal 2012 sulle pensioni degli ex onorevoli, perché di pensioni in piena regola si tratta, viene applicato il metodo di calcolo non più sulla base dello stipendio, ma dei contributi effettivamente versati. 

 

Il problema è che il taglio viene fatto applicando il metodo contributivo anche ai periodi precedenti al 2012, con il risultato di ridurre drasticamente alcuni assegni già in pagamento. Fioccano i ricorsi e si arriva fatalmente al Consiglio di garanzia, presieduto da un ex senatore di Forza Italia, Luigi Vitali, che è stato sottosegretario di un governo di Silvio Berlusconi. Non è uno sbaglio: si tratta proprio di un ex senatore. Dalle elezioni sono trascorsi ormai nove mesi ma il collegio di garanzia non è stato mai rinnovato. Quindi è ancora in carica quello precedente, nonostante alcuni suoi componenti non siano stati rieletti. 

 

Fra cui, appunto, il presidente. Che oltre ad avere l’età per incassare il vitalizio (ha 68 anni) è stato parlamentare per quasi quattro legislature prima del 2012, data fatidica dell’entrata in vigore del metodo contributivo. Al dunque, i rappresentanti della Lega e di Fratelli d’Italia si dicono contrari, mentre l’esponente del Partito democratico si astiene. Ai due voti contrari si contrappongono i due voti favorevoli di un ex senatore del Movimento 5 Stelle (!) e di Vitali. Siccome il voto del presidente vale doppio in caso di parità, il ricorso viene accolto. E il taglio dei vitalizi eliminato.

 

Il brano è un'anticipazione dal libro "Io so' io. Come i politici sono tornati a essere intoccabili" (Solferino)