Analisi
L'Italia delle contraddizioni: la crescita c’è ma non si vede
Il modesto avanzamento dell’economia convive con il record storico della povertà. Il risveglio del Sud è minacciato dagli effetti dell’autonomia differenziata. Ritratto di un’Italia fragile. Imbrigliata da debito pubblico monstre, produttività al palo e debolezza finanziaria
«L’Italia che cresce? È quella con bassa produttività e basse retribuzioni. Trattandosi dell’Italia più arretrata, se ci limitiamo a entusiasmarci per i suoi risultati, peraltro positivi, continuiamo a rinviare all’infinito la modernizzazione del nostro Paese». La vede così l’economista Giorgio Arfaras, sfatando i facili luoghi comuni. Da mesi, l’aumento dei posti di lavoro viene celebrato citando i dati. Nel primo trimestre 2024 – come certifica l’Istat – l’occupazione «in termini tendenziali» è cresciuta dell’1,7 per cento rispetto all’anno precedente (+394 mila unità) con un incremento a favore del lavoro a tempo indeterminato (+3,1 per cento) e una diminuzione della disoccupazione (-5,9 per cento). Per quanto riguarda l’andamento «congiunturale», rispetto all’ultimo trimestre 2023, l’aumento degli occupati è dello 0,3 per cento, che equivale a un incremento di 75 mila unità, confermando la crescita del lavoro a tempo indeterminato (+0,6%, +92 mila). In tre mesi, la disoccupazione è scesa del 2,9 per cento (-55 mila).
«Non illudiamoci – spiega Arfaras, studioso storicamente legato al Centro Einaudi di Torino – i posti di lavoro aumentano prevalentemente nei settori a bassa produttività che pagano poco i dipendenti. Sono aziende che hanno alti tassi di occupazione per il semplice motivo che non investono nei macchinari».
È la prima contraddizione dell’Italia economica negli ultimi anni. Non l’unica. Perché la piccola o modesta crescita convive con il record storico della povertà e il risveglio del Sud, documentato dallo Svimez, deve fare i conti – tutti politici – con l’autonomia differenziata, che rischia di danneggiare profondamente proprio le Regioni del Mezzogiorno. Ripartiamo dall’occupazione. È in crescita, ma non in quei settori produttivi che dovrebbero davvero trainare una duratura crescita del Paese. La situazione resta fragile, se guardiamo anche i dati della Cgil: 180 mila lavoratori sarebbero a rischio, a partire dai 58 mila dipendenti di aziende per le quali il ministero delle Imprese e del Made in Italy ha già aperto 59 tavoli di crisi, dall’inizio dell’anno.
A confermare che la crescita resta debole, rendendo precaria la situazione economica italiana, è proprio il Pil. Un incremento c’è e va anche oltre le previsioni, come da più parti si sottolinea? Giusto. «Ma è una variazione modestissima», avverte ancora Arfaras. Per l’Istat, +1 per cento nel 2024, grazie all’aumento sia della domanda interna sia di quella estera. La Commissione di Bruxelles ha alzato le stime, però fermandosi a +0,9 per cento (rispetto al +0,7% della precedente rilevazione). Quanto al 2025, c’è invece una limatura, sia pure leggera: le previsioni economiche di primavera assegnano all’Italia un +1,1 per cento anziché +1,2 per cento.
È vero. Siamo in vantaggio rispetto alla Germania e alla Francia (che quest’anno, rispettivamente, non vanno oltre +0,1% e +0,7%), ma ci superano gli altri Paesi dell’Europa mediterranea: Spagna (+2,1%), Portogallo (+1,7%), Grecia (+2,2%).
«Il dato italiano entusiasma chi partiva da visioni apocalittiche, che prevedevano il peggio per via delle guerre in corso, in Ucraina e in Medio Oriente, e per un pessimismo ancora più profondo che addirittura spingeva a intravedere la crisi dell’Occidente con accenti quasi putiniani – prosegue lo studioso – si aggiunge un interesse propagandistico a dire che da quando c’è la nuova premier, Giorgia Meloni, l’Italia si riprende, così come con Mario Draghi si sosteneva che tutto procedeva al meglio perché il presidente del Consiglio venuto dall’Europa trasmetteva fiducia. Ancora prima, tutto andava bene con Giuseppe Conte, primo e secondo, poiché il premier Cinque Stelle consentiva il reddito di cittadinanza. È sempre propaganda. Ma nell’ultima versione, quella meloniana, si presenta in veste patriottica annunciando le riforme in assenza della possibilità di utilizzare la spesa pubblica».
Perdura una labilità che Bruxelles, proprio aprendo la procedura d’infrazione per deficit eccessivo, ha così fotografato: «Permangono vulnerabilità legate all’elevato debito pubblico e alla debole crescita della produttività in un contesto di fragilità del mercato del lavoro e alcune debolezze residue del settore finanziario».
Occupazione che comunque migliora, Pil che cresce sia pure debolmente. Ma c’è il dramma della povertà, a dimostrazione di una crisi sociale che negli ultimi anni non si arresta, avanzando senza argini. È la Caritas a documentare che ormai siamo ai massimi storici: sono quasi 270 mila le persone che si sono rivolte all’organismo pastorale della Cei ricevendone assistenza. «Il confronto del numero di assistiti 2019-2023 è impietoso: +40 per cento», sottolinea il report giungendo, appunto, alla conclusione che la povertà ormai «è da intendersi come fenomeno strutturale del Paese».
È, peraltro, la conferma della linea di tendenza già tracciata dall’Istat pochi mesi fa: quasi 6 milioni di persone in povertà assoluta nel 2023. Assoluta, nel senso che si tratta di famiglie con una spesa mensile che non supera l’acquisto di un paniere di beni e servizi tale da garantire un livello di vita che sia minimamente accettabile.
Dal senatore del Pd, Walter Verini, arriva una spiegazione. «La povertà convive con una crescita che c’è, ma che risulta trainata dall’export, senza una ricchezza diffusa nel Paese. Il benessere riguarda solo alcuni strati produttivi e alcuni settori sociali. Così le diseguaglianze aumentano all’interno di periferie sociali, che alla fine coincidono con quelle urbane. Dietro ai dati ufficiali sulla povertà vediamo le persone più povere e sono quelle che non arrivano a fine mese con le loro entrate e che non si curano quando cadono in malattia», avverte il parlamentare: «Di qui un grande allarme che, se non riceve una risposta, rischia di non fermare il dilagare di vere e proprie polveriere sociali in certe aree del Paese. Fra queste il caporalato e la barbarie che abbiamo visto a Latina, a conferma di condizioni disumane che caratterizzano anche alcuni settori del mondo del lavoro e che, nel Comune laziale, hanno almeno ricevuto una risposta delle organizzazioni sindacali dopo quanto è drammaticamente avvenuto».
Per Verini, occorre «un grande patto fra le forze sociali, sindacati e imprenditori, che tenga insieme la crescita buona, quella che passa attraverso l’innovazione e la lotta al lavoro povero, contro lo sfruttamento». Il senatore Pd invita a «non pensare solo alla crescita, senza guardare anche a condizioni di lavoro sicure». Quanto poi a strumenti come l’assegno di inclusione, che ha preso il posto del reddito di cittadinanza, si tratta di qualcosa che non funziona poiché «non ha la copertura finanziaria necessaria». Ma ciò non toglie che il vecchio reddito di matrice grillina fosse insufficiente, in quanto «debole sul versante delle politiche attive per il lavoro».
Almeno ci sono buone notizie per il Sud, se ad annunciarle è un’autorità in materia come lo Svimez. Nel 2023, nel Mezzogiorno, il Pil è cresciuto oltre la media nazionale (+1,3%), per via degli investimenti pubblici; a differenza del Nord che ha rallentato la crescita (+1% al Nord-Ovest, +0,9 al Nord-Est). Arranca decisamente il Centro Italia (+0,4%).
Peccato che l’autonomia differenziata, appena varata dal Parlamento dopo essere stata imposta da Matteo Salvini agli alleati di governo, rischi di compromettere seriamente proprio lo sviluppo del Sud. È in partenza il referendum abrogativo promosso dalle opposizioni insieme con Cgil, Uil e le associazioni del Terzo Settore, per cancellare la legge. Si fanno già sentire le Regioni del Sud, nel tentativo, dopo il via libera al provvedimento, di evitare il peggio.
Una precisa richiesta arriva da Roberto Occhiuto, governatore della Calabria e vicesegretario nazionale di Forza Italia. «Nessuna intesa fra il governo e le singole Regioni, se prima non c’è la certezza dei finanziamenti per garantire diritti e servizi. E anche nelle materie non sottoposte ai Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) occorre prudenza per evitare che l’autonomia produca effetti negativi. Se mancano le risorse, il provvedimento approvato rischia di restare una scatola vuota non solo per il Sud, ma anche per il Nord, comprese le materie che per essere trasferite alle Regioni non richiedono i Lep. Ma soprattutto per i Lep non c’è al momento neppure un euro e, visto che abbiamo ancora due anni per definire i Livelli, non capisco perché la riforma sia stata votata nell’ultimo passaggio parlamentare, di notte e in fretta».
Una legge «spacca Italia»? «Non l’ho mai considerata così – risponde Occhiuto – piuttosto è un treno con due vagoni. Nel primo c’è l’attuazione dell’articolo 116 della Costituzione, con il riconoscimento dell’autonomia. Nel secondo, l’attuazione dell’articolo 117 con i diritti e le prestazioni da far valere in tutte le Regioni allo stesso modo, sulla base dei Lep, dopo avere superato finalmente il criterio della spesa storica. Criterio dannoso per Regioni e Comuni. Il primo vagone è in viaggio, il secondo è rimasto fermo in stazione». Per la maggioranza il rischio politico è alto. «Non si dimentichi – avverte il governatore forzista – che l’autonomia differenziata, non considerata una priorità dall’elettorato del centrodestra, trova oggi, fra i cittadini, una forte opposizione al Sud e un consenso molto più limitato al Nord rispetto a qualche anno fa».
Con il debito pubblico che ci ritroviamo – si prevede che fra quattro anni arrivi al 143,7 per cento, superando quello della Grecia – non sarà facile reperire le risorse necessarie. Il nuovo Patto di Stabilità già impedisce manovre in deficit come quelle degli ultimi anni. Figuriamoci tutto il resto… Lo studioso Damiano Bruno Silipo ha provato a calcolare, su Regional Economy, “Gli effetti dell’autonomia differenziata sulla sostenibilità del debito pubblico italiano” (titolo della ricerca) e il risultato non è certo incoraggiante. Allora l’interrogativo, che suona anche come una sfida politica fra maggioranza e opposizione, è uno solo: arriveranno prima i fondi per i Lep, con i dovuti finanziamenti, oppure a tagliare il nastro sarà, una volta per tutte, il referendum abrogativo? L’intera partita, comunque, si giocherà entro il 2025.