Intervista
Cecilia Strada: «Non perderò l'anima in Europa»
È stata eletta europarlamentare indipendente del Pd. Con un numero di preferenze da record. «L’odore delle guerre, le ferite di chi fugge e arriva nascondendosi, la faccia di chi non ha soldi per curarsi. Tutto questo voglio rappresentare a Bruxelles»
Volendo misurare la differenza tra il Pd di ieri e quello di oggi, si potrebbe prendere ad esempio il suo profilo, la sua faccia felice, il suo linguaggio intrepido. Cecilia Strada, 45 anni, una vita passata – negli ultimi anni con ResQ –People Saving People – a combattere sul campo le disuguaglianze e a occuparsi di soccorso in mare, come suo padre Gino e sua madre Teresa Sarti. Ecco, una come lei, fino a un anno e mezzo fa, nemmeno per sbaglio avrebbe detto sì alla politica e tantomeno sì al Pd, il partito del Memorandum Italia-Libia, l’equivalente del male assoluto per chi fa accoglienza. Adesso è fresca europarlamentare indipendente del Pd, con un numero da record di preferenze: oltre 282 mila, nella circoscrizione Nord-Ovest. Zone dove il voto è un vento di opinioni, di convinzioni e di entusiasmi che bisogna saper acchiappare. A Bruxelles e a Strasburgo si occuperà di fenomeno migratorio e affari interni, diritti delle donne, cooperazione allo sviluppo, lavoro e politiche sociali. Durante un comizio, in campagna elettorale, l’accolsero con le note di Viva l’Italia di Francesco De Gregori.
Cosa porta di quello spirito da «Italia che sta in mezzo al mare» adesso che va al Parlamento europeo?
«Mi sento fortunata ad aver fatto altro nella vita, prima di scegliere la politica. Sicuramente ne so molto meno in termini di tecnica e pratica rispetto ai colleghi. Ma ho avuto l’esperienza di essere dall’altra parte, di confrontarmi con le disuguaglianze. Sono stata dove le politiche hanno effetto sulla pelle delle persone e quindi ne ho una visione molto pratica: l’odore che ha una guerra, o il Memorandum Italia Libia, la puzza che fa una ferita infetta di qualcuno che è arrivato nascondendosi tra i boschi, la faccia che ha chi – e ne ho visti in Italia – rinuncia a curarsi perché non ha soldi e poi ti chiede per favore un aiuto, ecco, io quelle cose le ho imparate in tutti questi anni di attivismo prima e di lavoro poi. Questo porterò in Europa».
La scorsa legislatura in Europa si è chiusa con il patto su migrazione e asilo, è stato forse il momento in cui la Commissione diede il segnale di maggiore apertura alla destra. Cosa si aspetta da questo nuovo inizio, quali sono le priorità?
«Quel patto è stato un disastro, anzitutto dal punto di vista della possibile violazione dei diritti umani: a Ursula von der Leyen, nei colloqui con i gruppi dei socialisti, è stato chiesto di monitorare che quei diritti siano rispettati, nei prossimi anni. Per quanto mi riguarda, lo sappiamo già che verranno violati, quindi si tratta di mettere in piedi degli strumenti per capire come e dove, e impedirlo, smontare questi meccanismi: quello è potenzialmente un buco nero del diritto d’asilo in Europa. Sarà una priorità occuparsene. Così come lavorare a una missione europea di ricerca e soccorso in mare: lo chiedeva il Pd, dalla Commissione è arrivato qualche segnale in questa direzione».
Siamo lontanissimi dal riformare il Regolamento di Dublino, che si fonda sul criterio di Paese di primo ingresso, in base al quale chi arriva in Italia resta impigliato qui anche se non vuole.
«Quelle regole si dovrebbero cambiare, ma il patto che è stato approvato alla fine della scorsa legislatura va purtroppo nella direzione opposta. Non genera solidarietà europea, perché permette di rinunciare al ricollocamento delle persone semplicemente pagando una multa. Questo è mettere un prezzo di mercato sulla pelle delle persone, è l’opposto della solidarietà. E significa non proteggere i Paesi di primo approdo, cioè noi. Il nostro governo dice che ci dobbiamo tutelare, ma di fatto i governi sovranisti, suoi amici, non vogliono la solidarietà e pagheranno per non accogliere».
Si proseguirà con una progressiva esternalizzazione delle frontiere?
«Tutte le forze conservatrici cercheranno di andare in questo in questo senso, i prossimi anni saranno evidentemente duri, anche vista l’affermazione in tanta parte dell’Europa della destra e dell’estrema destra. Per quanto riguarda la politica sui migranti del governo italiano, al confronto mi sembra più semplice lavorarci: credo che molti elettori della destra abbiano cominciato a chiedersi quale corrispondenza ci sia tra le promesse e la realtà. Tra il blocco navale, il decreto Flussi e gli ottocento milioni di euro spesi per il centro migranti in Albania. Un centro del quale l’unica buona notizia è che ancora non c’è: vuol dire che si può ancora provare a fermare questo spreco di soldi che comunque sarà bloccato dai ricorsi, perché è una cosa che giuridicamente non pare che starà in piedi».
In campagna elettorale qualcuno si è intimorito all’idea che il Pd avesse candidato degli indipendenti, come lei o anche l’ex direttore di Avvenire, Marco Tarquinio. Come pensa di interpretare questo ruolo?
«Non penso che ci sia qualche procedura speciale da seguire. Il Pd è un partito che per fortuna non espelle i suoi iscritti quando votano in modo non conforme alla linea. È già accaduto. Quindi da indipendente o iscritta penso sia in realtà la stessa cosa: io voglio essere parte di un progetto collettivo, in cui c’è pluralità, si ragiona, si discute e poi si vota».
Come è il Pd visto da vicino?
«Qualcuno all’inizio della campagna elettorale mi ha avvertito: guarda, ti prenderai una cotta per i militanti del Pd. Non aveva torto. Ho trovato davvero una comunità di persone che hanno forza ed entusiasmo nonostante tutto e nonostante anni duri».
Nonostante il Pd, a volte.
«Nonostante la fatica messa negli screzi interni che mi sembra il peccato più grande: energie di persone intelligenti e competenti perse così. Ma questo succede nei partiti, nei mondi umanitari, succede un po’ ovunque, suppongo in ogni gruppo di persone».
Avrebbe mai pensato di finire eletta proprio con quel partito?
«Negli anni in cui si firmava e difendeva il Memorandum Italia-Libia evidentemente non avrei potuto esserci. Per questo apprezzo le persone che, nonostante la fatica, hanno tenuto il punto e hanno permesso che questa cosa rimanesse viva fino al punto in cui è stato possibile cambiare rotta. Avevo sempre escluso di fare politica, ogni volta che me l’avevano proposto. Non l’avevo mai neanche seriamente valutata: sempre qualcosa di non compatibile con il momento; o con la mia coscienza, magari per via del partito che me l’aveva proposto. Quest’anno, quando Elly Schlein mi ha cercato, come prima cosa ha chiesto: “In che fase della vita sei?”. Risposta: “Nella fase in cui sto ragionando sull’impatto che ho”. Mi sembrava che avrei potuto fare di più: nella vita mi sembra in generale sempre di fare poco, il minimo sindacale, avrebbe detto mia madre. Sto sempre a chiedermi: posso fare meglio? O di più?».
Tanti nei palazzi perdono l’anima: lei non lo teme?
«Proprio perché vengo da un altro mondo, penso di avere degli strumenti per difendermi, almeno fintanto che mi ricordo quell’odore che ha la politica sbagliata. E poi ai miei amici e colleghi l’ho detto: nel momento in cui dovessero sospettare che non sono più al servizio di un progetto collettivo, ma di qualche cos’altro che riguarda solo me, hanno la mia precisa richiesta di dirmi: “Vieni un attimo qua a spazzare il ponte della nave”. Poi devo dire che, al di là di chi lo fa per interesse, la politica ha tanta anima, la maggior parte delle persone che ho incontrato la fa perché, come diceva don Lorenzo Milani, vuole “uscire insieme da problemi comuni”. Quindi in fin dei conti non ho paura di perdermi: ho la speranza di aumentare l’impatto positivo sul mondo intorno a me».