La rottura tra il fondatore e l'attuale presidente è insanabile e ciò si ripercuote sulle dinamiche interne del partito. Il tema del limite dei mandati per gli eletti sarà ancora utilizzato come clava. O l'ex presidente del Consiglio darà più spazio all'ex comico genovese oppure ci sarà un'altra scissione con un definitivo rimpicciolimento dei pentastellati

Avvertenza ai lettori. Questo articolo è scritto con informazioni biodegradabili: disperso in un ambiente aperto potrebbe decomporsi e lentamente sparire. Dunque è perfetto per annotare elaborare riformulare, attraverso conversazioni con illustri personaggi dei Cinque Stelle di ieri e di oggi e chissà se di domani, le ultime sciagure che affronta, o finge di affrontare, il Movimento. In questa lunga fase di analisi e pure di psicoanalisi, che ha risucchiato il partito dopo il tonfo alle Europee sotto il dieci per cento, si commette un errore marchiano: sostenere che ne resterà uno solo tra il «fondatore garante e custode dei valori» Beppe Grillo e il «presidente titolare dell’azione politica» Giuseppe Conte. No. Qui non resta niente. Sparire. Non funziona più lo schema ormai antico di Grillo che fa il rude oracolo e punzecchia Conte e Conte che fa il sincero manierato e lo ignora. Perché mentre ciò accade e ciascuno tenta di acquietare i suoi rancori anche personali, per esempio a Grillo non va giù il telefono di Conte che squilla e Conte che non risponde e soprattutto non richiama, si attiva il processo di decomposizione, che non è reversibile nelle organizzazioni politiche di origine spontanea, non strutturate, non radicate. Citofonare Antonio Di Pietro o Pablo Iglesias Turrión. Succede che il Movimento si accartoccia su sé stesso, scivola nei consensi virtuali e poi in quelli reali, viene superato da Avs di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, finisce in quei luoghi oscuri, le necropoli dei partiti, dove giacciono i tentativi di rifare la Democrazia Cristiana o il cosiddetto Terzo Polo. E addirittura, poiché tutto muta nulla perisce, viene tumulato con una scissione definitiva, un Movimento con le truppe di Grillo o le truppe di Conte. Grillo e Conte sono assieme il problema e la soluzione, ma per non commettere altri errori marchiani, è opportuno inquadrare il problema, anzi i problemi, e poi cercare di scoprire dov’è nascosta la soluzione.

 

I Cinque Stelle furono creati da Gianroberto Casaleggio col supporto di Beppe Grillo con una serie di rigide regole che col tempo hanno subìto delle repentine deroghe. L’impostazione di Casaleggio ha permesso a decine di sconosciuti di farsi portavoce nelle assemblee elettive di una richiesta popolare che, al contrario delle loro biografie perlopiù lacunose, era più che palese: rimuovere/distruggere il vecchio sistema dei partiti, creare un nuovo sistema senza partiti tradizionali e senza professionisti della politica con maggiore partecipazione. Uno vale uno, ricordate? Non c’era gente indispensabile. Casaleggio è scomparso otto anni fa e non ha assistito al Movimento di deroghe e di governo. Proprio Casaleggio che ha sempre sostenuto, e spesso viene citato su questo punto dirimente, che ogni deroga cancella la regola.

 

La precedente legislatura il Movimento, capace di formare tre governi con tre alleati diversi, destra, sinistra e persino il tecnico con Mario Draghi, ha sconfessato quasi la totalità delle regole che l’hanno allevato. La più rilevante: è diventato un partito verticale, personale, monodico. Uno non vale uno. Uno vale tutto. È la stagione di Giuseppe Conte. Questa stagione va raccontata con un giro in scena e un altro nel retroscena.

 

Roberto Fico

 

La scena mostra un «organigramma» dei Cinque Stelle che, di fatto, è un documento burocratico. In cima c’è per l’appunto il presidente Conte, il depositario di una linea politica che deve concordare unicamente con Conte. Col garante Grillo parla poco e male. Con la comunità digitale non parla neanche poco (Davide Casaleggio se ne andò con la piattaforma Rousseau e Conte non ne ha sentito mai la nostalgia). I vicepresidenti, il comitato di garanzia, il collegio dei probiviri, il consiglio nazionale non parlano se non espressamente autorizzati da Conte, addirittura si negano al telefono, si fanno trovare in altre faccende affaccendati, riflettono su cosa dire senza concludere mai la riflessione, si sforzano di avere coraggio senza averne mai praticato. A parte rare eccezioni, tipo l’ex sindaca Virginia Raggi che si ispira all’archetipo del Movimento e però fu la prima a ottenere una deroga per ricandidarsi al Comune di Roma per arrivare quarta.

 

Nessuno vuole inchiodare nessuno al muro delle deroghe. Peraltro Conte è il prodotto di una sequenza infinita di deroghe. Perché Conte, e ancora ci si richiama a Casaleggio, è diventato indispensabile. O almeno così appariva durante la concitata estate 2021. Quando Conte fu issato al vertice del Movimento nonostante Grillo lo avesse definito un «incapace». I Cinque Stelle erano in maggioranza nel governo Draghi e al solito comodi su più poltrone. Conte era ferito, offeso, proprio sanguinante dopo la soppressione, che reputava un’ingiusta manovra di palazzo, del suo governo di centrosinistra e soprattutto era circondato da prefiche che ne esaltavano le qualità. Anche chi nel Movimento non lo stimava parecchio o ne era detrattore, però, gliene riconosceva una: Conte era popolare, un usato non usurato. La pandemia aveva gonfiato la considerazione di sé e il gradimento dei cittadini. Conte era un rifugio per tante anime (e poltrone) perse dei Cinque Stelle.

 

Il patto su Conte era il patto sul terzo mandato. Le deroghe. Fu insellato dal reggente Vito Crimi con immane fatica e drammatici diverbi con Grillo. L’avvento del già avvocato del popolo era l’occasione per fissare le regole interne e per le elezioni politiche previste a inizio 2023 (poi furono le spallate di Conte a far cadere Draghi e condurre alle urne a settembre 2022). In un momento di questi negoziati si toccò il tema più incandescente: il terzo mandato, consentire ai parlamentari più in vista di ricandidarsi e quindi salire sull’arca di Conte. Rimossi Casaleggio e la piattaforma Rousseau, l’ostacolo era Grillo, custode non soltanto dei valori, ma anche del simbolo. Il patto prevedeva il nullaosta di Grillo a una manciata di deroghe. Le trattative sono avvenute prima e dopo l’uscita di Luigi Di Maio con un gruppo di parlamentari (21 giugno 2022). Conte doveva proporre le liste, Grillo le doveva approvare. In una lista di Conte da sottoporre a Grillo c’erano Vito Crimi, Riccardo Fraccaro, Paola Taverna, Alfonso Bonafede, Giancarlo Cancelleri. Per Grillo c’erano nomi inaccettabili, la subì come una provocazione. Non s’è mai capito se la lista di Conte fu un errore non intenzionale o uno stratagemma di mirabile astuzia. Comunque fu l’innesco per un inevitabile repulisti: fuori chi aveva raggiunto i due mandati elettorali a qualsiasi livello, dentro reduci dei gruppi parlamentari già ben sfoltiti da Di Maio e altri promossi a discrezione del presidente. La strategia di Conte era elementare: tornare in minoranza e competere col Partito Democratico per la supremazia nel centrosinistra e un giorno, grazie alla sua abilità di coniugarsi indistintamente con la destra e la sinistra, tornare a Palazzo Chigi.

 

I sondaggi pronosticavano l’arca di Conte alla deriva aggrappata a un complicato dieci per cento, lontana dall’area di pesca democratica e surclassata ovunque dalle destre con Giorgia Meloni a prua, invece il Movimento con la difesa del reddito di cittadinanza ha resistito nel Mezzogiorno affermandosi con un buon 15,43 per cento. Allora Conte, che non ha il piglio del condottiero, gradatamente ha cominciato a riplasmare il Movimento, a farne un partito classico, con i gruppi parlamentari di assoluta fedeltà, con una ampia sede in centro a Roma, con l’accesso al «due per mille» che l’anno scorso ha fruttato 1,85 milioni di euro, risorse necessarie anche per saldare la parcella da 300.000 euro del garante consulente Grillo che, dopo il 15,43 per cento, si è inabissato nei mari del silenzio. Privo di esperienza politica dopo il corso accelerato di governo con due esecutivi in tre anni, Conte ha presto iniziato a giocherellare col mestiere di capo irritando spesso il Pd e accentrando su di sé l’attenzione dei media. Anche Rocco Casalino è scomparso dalle riprese tivvù.

 

Vito Crimi

 

La vittoria di Elly Schlein contro Stefano Bonaccini, però, ha rovesciato i piani di Conte e lentamente ne ha ridotto lo spazio politico. Smantellato il reddito di cittadinanza e condannato senza appelli il superbonus edilizio, a Conte è rimasta la battaglia contro le forniture di armi agli ucraini, un argomento che non scalda. Il crollo alle Europee era più che previsto. Conte poteva attutirlo meglio con una parziale deroga al terzo mandato, candidare antiche bandiere del Movimento e personalità autorevoli e indipendenti. Il caso di Roberto Fico è il più emblematico. Ex presidente della Camera, perciò terza carica dello Stato, a cinquant’anni da compiere a ottobre si ritrova imprigionato nel limite dei mandati. Fa molta attività politica e in particolare in Campania, la sua regione, la roccaforte del grillismo. Conte poteva riabilitare Fico e altri simil Fico. Ha preferito chiudersi nel bunker con una campagna elettorale timida, nei teatri come Grillo, e ha sperato che il botto non fosse troppo forte. È stato fortissimo. Ha svegliato Grillo. E le correnti sotterranee al Movimento hanno dato segni di vita. Seppur flebili.

 

Adesso Conte deve agire. Nel breve periodo non rischia di perdere il controllo del Movimento né quei milioni di elettori residui, ma nel medio/lungo periodo rischia di perdere tutto. A sentire più pareri di politici che frequentano o hanno frequentato il partito, il Movimento ha bisogno di una svolta di alto impatto emotivo. Come fu il “V Day” di Bologna, le firme per il Parlamento pulito, il Maalox di Casaleggio e Grillo, la mano di Conte sulla spalla di Matteo Salvini versione Papeete, le conferenze stampa notturne con la pandemia, le manifestazioni con Grillo mattatore. Si sbaglia di grosso Conte se pensa di rimuovere e non risolvere il problema, ragionano le fonti, lasciando un po’ di spazio nel fantomatico organigramma ai grillini come Raggi o ai fondatori come Fico oppure si infila in elucubrazioni sul campo largo di centrosinistra. Grillo non troverà pace finché non avrà le sue soddisfazioni e lo stesso Conte non avrà pace finché Grillo non sarà soddisfatto. Un bel dilemma. Almeno sapremo se il Movimento è diventato biodegradabile. E la svolta sarà esclusivamente ambientalista.