Politica
15 ottobre, 2025Al governatore del Veneto era stato fatto intendere che il suo nome avrebbe campeggiato sul simbolo del partito, ma la promessa non è stata mantenuta. E il malumore, da sussurro, è diventato messaggio
A chi gli chiede se davvero sia pronto a lasciare la Lega, Luca Zaia non risponde. Sorride, prende tempo, dribbla. Come fa da anni. Eppure, nelle ultime settimane, quel sorriso è diventato sempre più tirato. Uscire dalla Lega? “No”, assicurano i suoi. Ma nemmeno restarci così com’è, al traino delle scelte romane, pare più sostenibile. Il governatore del Veneto – ancora oggi il presidente di Regione più amato d’Italia – non ha alcuna intenzione di rompere platealmente, ma i segnali di insofferenza si moltiplicano. E, forse, più che una scissione, si profila una strategia silenziosa di logoramento.
Il punto di rottura – raccontano fonti vicine al Doge – è arrivato con la gestione delle candidature per le regionali del 23 e 24 novembre. A Zaia era stato fatto intendere che il suo nome avrebbe campeggiato sul simbolo della Lega, anche solo per dare un segnale di continuità e appartenenza dopo lo stop alla sua lista personale. Una forma di riconoscimento politico e territoriale, più simbolica che strategica. Promessa non mantenuta. E il malumore, da sussurro, è diventato messaggio.
«È stato un accordo al ribasso», spiegano da palazzo Balbi, lasciando intendere che qualcuno a Roma ha preferito tenere basso il profilo di Zaia, temendo che la sua ombra si allungasse troppo sulla campagna elettorale. Una lettura che a via Bellerio respingono con stizza. Ma il sospetto, in Veneto, è che Matteo Salvini (e Giorgia Meloni) non vogliano fare i conti con la popolarità del Doge, oggi più trasversale del partito stesso.
Zaia, dal canto suo, fa il suo gioco: non rompe, ma non applaude. Ha garantito il pieno sostegno ad Alberto Stefani, il candidato governatore scelto dal centrodestra e segretario della Liga Veneta. I due si stimano davvero e collaborano da anni. Ma la candidatura diretta del presidente uscente come capolista in tutte le province – ancora incerta – sarebbe il vero segnale di una mobilitazione convinta. Al momento, la parola d’ordine resta “prudenza”.
Sul fronte romano, si smentisce ogni frizione con Meloni. Anzi, chi conosce bene il governatore parla di un rapporto ottimo con Palazzo Chigi, fatto di rispetto istituzionale e dialogo aperto. Il problema, ancora una volta, è interno alla Lega. E ha un nome e cognome: Matteo Salvini.
La gestione centralizzata, la comunicazione sempre più aggressiva, la scelta di candidare Roberto Vannacci in Toscana, che ha portato la Lega sotto il 4,5%, ha lasciato strascichi evidenti. «Speriamo che qualcuno capisca che così non si va avanti», è il commento – volutamente ambiguo – che circola tra i parlamentari veneti. Zaia non ha mai fatto mistero del suo scetticismo verso l’operazione Vannacci. E i numeri, ancora una volta, gli danno ragione.
A far infuriare i territori è anche l’impressione che il partito abbia perso completamente la bussola. «Non c'è più ascolto. Non ci si consulta. Si calano decisioni dall'alto come se fossimo negli anni ’90», attacca un amministratore locale del Trevigiano. E se a Nord-Est si inizia a rimpiangere l’era Bossi, è evidente che qualcosa si è rotto.
Eppure Zaia continua a giocare di fino. Non ha alcuna intenzione di fondare un partito, né di entrare in rotta di collisione aperta. Ma sta prendendo tempo, costruendo un capitale politico personale che, nel caso tutto implodesse, potrebbe tornargli utile. In Regione, e non solo. Le voci che lo danno interessato a una transizione nazionale – magari dopo il 2025 – sono tutt’altro che infondate.
Il punto è che la Lega di oggi non è più casa sua. Il partito padano, autonomista, radicato e amministrativo, è stato svuotato e ricostruito su una base personalista, mediatica e muscolare. «Zaia è rimasto l’unico a parlare alla pancia del Nord senza urlare», osserva un ex senatore leghista oggi fuori dai giochi.
I prossimi mesi saranno decisivi. Se la Lega dovesse subire un altro tonfo alle regionali, il dossier “rinnovamento” – ora solo evocato – tornerebbe prepotentemente sul tavolo. In quel caso, Zaia diventerebbe il naturale punto di riferimento per tutti i delusi del salvinismo. Lui, per ora, resta alla finestra. Ma nessuno ha dubbi: osserva, ascolta e prende nota.
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