Politica
20 ottobre, 2025Non serve un centro, ma un vero radicamento. La sindaca di Perugia Vittoria Ferdinandi ragiona di elezioni, destra e fronte progressista. I nomi? Ci sono le primarie, perché accapigliarsi?
L'odio viene ben prima dell’amore. Il fratellino vorrebbe uccidere la sorellina appena nata. Poi c’è l’evoluzione dell’uomo per fortuna. Ma in Italia e nel mondo, la politica è tornata in una fase primordiale». Il colloquio con Vittoria Ferdinandi, sindaca di Perugia da 16 mesi, finora unica candidata (insieme alla governatrice Proietti sempre in Umbria) ad aver ribaltato, con i simboli del campo largo, un’amministrazione locale battendo gli uscenti della destra, si svolge tutto sul filo dell’analisi politica e di quella più profonda della natura umana.
Ferdinandi, 39 anni, è una psicologa clinica e filosofa, direttrice (fino all’elezione) del ristorante Numero Zero dove lavorano persone con disturbi mentali, ruolo che le è valso la nomina di Mattarella a Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica.
Giani si è confermato in Toscana, ma Ricci e Tridico hanno fallito il ribaltone. Il campo largo non è pronto?
«Non sottovaluto l’affermazione nelle regioni dove già governiamo. Significa che c’è una qualità di classe dirigente diversa rispetto alla destra. Dove siamo stati sconfitti dobbiamo cogliere l’opportunità di ripensare qualcosa ma assolutamente non la costruzione del campo progressista. Esistono delle differenze di percorso, uniti non significa uniformi, il nostro elettorato, compreso quello dell’astensione, è più attento, più esigente e oggi molto disorientato. Il campo largo non funziona quando non si radica bene, quando l’alleanza è solo aritmetica, quando manca la vera sintesi. Dobbiamo lavorare su questo, ma non c’è alternativa. Partendo da un patto generazionale. A Perugia è successo e i risultati sono arrivati».
L’unico patto generazionale che le opposizioni hanno intercettato si è visto nelle piazze per Gaza. E ora? Su quali temi?
«Molti. La povertà che dilaga, le fragilità, l’immigrazione, la sicurezza, le disuguaglianze. Dobbiamo essere bravi a ripoliticizzare questi argomenti parlando della fiducia e non della paura».
In controtendenza con quanto succede nel mondo. Campa cavallo.
«Ho ascoltato in prima fila il discorso sulla pace che Meloni ha fatto ad Assisi. Puro teatro dell’ipocrisia. Avrei apprezzato di più che avesse difeso le sue convinzioni, rivendicato il mancato riconoscimento della Palestina, l’invio delle armi in Israele. La preferisco, scandalizzandomi, al naturale come quando paragona l’opposizione ad Hamas. Meloni è abile nella comunicazione con la sua parte ma dimentica la totalità dei problemi del Paese. È brava ad agitarli, non a risolverli».
E il centrosinistra è pronto a raccogliere lo scontento? Per ora immagina leader fuori dai partiti come Salis e Manfredi. Non si capisce se è un punto di forza o di debolezza.
«Un punto di debolezza è parlare dei nomi due anni prima del voto. Il campo progressista dovrebbe incontrarsi nelle piazze non nei caminetti. Come diceva Berlinguer casa per casa, strada per strada, aggiungo azienda per azienda. Serve costruire un progetto per l’Italia insieme al Paese, partecipato e capace di parlare alle persone. Noi ci siamo dati uno strumento meraviglioso, le primarie, la fatica della caccia al nome ce la possiamo risparmiare. Se il punto è invece il ruolo dei sindaci, beh non ci sono dubbi: c’è. Il civismo è una risorsa perché apre alla comunità e allarga la partecipazione».
Un punto debole è la competizione per la premiership tra Schlein e Conte?
«Conosco bene Schlein, meno Conte. Sono sicura che Elly non vive questa ossessione. Pensa solo al suo essere testardamente unitaria, a costruire il campo progressista. Poi, lo strumento delle primarie può rendere questa discussione del tutto inutile».
Serve un centro?
«In una persona due gambe, se funzionano, bastano e avanzano. C’è bisogno di una grande forza riformista e radicale, non di moderati. Non vedo il bisogno di un terzo polo, il centro è solo un luogo geometrico, la tenda riformista mi pare rischiosa: una folata di vento e vola via».
Perugia darà la cittadinanza onoraria a Francesca Albanese?
«Nessuno l’ha mai proposta, nessuno l’ha mai discussa».
Ha visto l’attacco della delegata Onu al sindaco di Reggio Emilia per le sue parole sugli ostaggi israeliani?
«Quell’immagine mi ha lasciato interdetta. Il dialogo e il rispetto per gli altri non possono mai mancare. Ci sono degli aspetti narcisistici nell’Albanese? Penso di sì. Detto questo, io ammiro il suo coraggio, la sua dedizione. Io sto dalla parte di Albanese anche sull’uso della parola genocidio».
In questa fase primordiale il narcisismo sembra una virtù. Partendo da Trump fino ad arrivare a Vannacci per esempio.
«La destra mondiale ha dei valori più semplici ma li ha. Non funzionano ma esistono. Anche nel linguaggio. Quello di Trump è ipnotico, le procedure sono messianiche. Primordiali. Noi dobbiamo provare a proporre soluzioni meno semplici ma più efficaci. Con qualche accorgimento. Non usare mai più la parola transizione – ecologica, industriale – è una parola che scatena una paura profonda».
Dicevamo di Vannacci.
«Io ho un vicino in regione che si chiama Bandecchi e gli somiglia. Esistono solo per la loro brutalità non per gli atti politici. E per l’indignazione che provocano. Vengono votati per questo, non nonostante questo. Io sono convinta che esista un’Italia maggioritaria più evoluta, con altri valori. A cominciare dall’essere maschio».
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