Politica
27 ottobre, 2025Il verde e il rosso, leader di partiti personali che compongono una leadership impersonale con Avs. Forti nelle candidature-bandiera, guadagnano voti abbracciati al Pd
Il primo cui dovrebbero dedicare un ex voto per grazia ricevuta è Carlo Calenda, il leader di Azione che nel convulso agosto 2022 li rese improvvisamente simpatici all’orbe terracqueo quando mandò all’aria un assai conveniente (per lui) accordo col Pd di Enrico Letta solo perché non voleva in coalizione anche loro due. La seconda da ringraziare è Elly Schlein che – per fortuna reciproca – né l’uno né l’altro candidarono nel 2019 (e nel 2022) ma che poi, diventata segretaria del Pd, ha fatto alzare l’acqua a sinistra anche a beneficio loro.
Il successo relativo ma indubbio del duo Fratoianni & Bonelli, bi-leader di Alleanza verdi e sinistra si misura tutto così: con l’eterogenesi dei fini e navigando dentro e fuori una serie di paradossi. Perché mentre i Cinque Stelle di Giuseppe Conte perdono voti ovunque da tre anni a questa parte – in alleanza o da soli, alle elezioni nazionali come a quelle locali – è dal 2022 che il duo rossoverde di consensi non fa che guadagnarne. Hanno cominciato con il 3,6 per cento alle Politiche, hanno preso il 6,8 per cento alle Europee del 2024 (mezzo milione di voti in più in due anni), hanno superato il 7 per cento in Toscana l’altra settimana (quasi il doppio rispetto a cinque anni fa: le due liste, insieme, valevano il 4,6 per cento) e insomma veleggiano verso percentuali che da almeno dieci anni la sinistra-sinistra vedeva col lanternino.
E il paradosso è che la rimonta è costruita tutta sulla strategia opposta a quella storicamente tipica dell’area, la religione dello «scindetevi e moltiplicatevi» sintetizzata dal Fausto Bertinotti interpretato da Corrado Guzzanti. Bonelli e Fratoianni funzionano dacché hanno smesso di giocare coi distinguo, di dire che la vera sinistra sono loro e gli altri no: oggi che il loro messaggio è unitario, rassicurante, mai così vicino a quello del Partito democratico, eccoli attrarre i voti degli elettori di sinistra, che magari non sono esaltati dal post-grillismo moderato di Conte, non si trovano a loro agio a votare dem o comunque preferiscono avere in lista Ilaria Salis o Mimmo Lucano, piuttosto che Elisabetta Gualmini o Irene Tinagli.
Specializzati in candidature bandiera fruttuose sul mercato elettorale (Salis appunto, ma anche Ilaria Cucchi, Ignazio Marino) abili nel liquidarne l’eredità se poi va male (Aboubakar Soumahoro), Bonelli e Fratoianni hanno poi un modo tutto speciale di esercitare la loro leadership, di cantare la loro «canzone intelligente, che spieghi un po’ di tutto e un po’ di niente», come facevano Cochi e Renato sulla Rai dei primi anni Settanta.
Entrambi leader di partiti decisamente personali, insieme compongono infatti una spettacolare leadership impersonale, in cui almeno in apparenza uno vale l’altro. Un paradosso anche questo, che è stato enunciato ufficialmente dal palco di Avs la sera dell’apertura della festa nazionale, il 3 settembre al Monk. Quando Massimo Giannini, a fine serata e a giornali chiusi, ha posto per l’ennesima volta ai leader la domanda su chi guiderà il campo largo. E Fratoianni, con un sorriso rapido: «Abbiamo risolto, ci andiamo noi a Palazzo Chigi: un po’ io e un po’ Bonelli». «Sei mesi uno, sei mesi l’altro», si è precipitato ad andargli dietro il leader verde assicurando, con una iperbole francamente azzardata – soprattutto per chi li conosce bene –, che «noi non litighiamo mai» e che «per decidere chi fa gli interventi importanti lanciamo la monetina». Come nel Csm immaginato da Giorgia Meloni: la politica che decide tirando a testa o croce.
Bonelli e Fratoianni in effetti sono l’ultima frontiera, hanno scavalcato pure l’idea del partito liquido: non sono nemmeno più un partito, sono una lista che nasce da un patto di consultazione (all’epoca c’era da decidere l’inquilino del Colle) e da un convegno unitario, col simbolo presentato a settembre 2022 alla Casa del cinema di Roma. Hanno in comune programmi ed eletti, più che organigrammi e sedi. Viaggiano leggerissimi.
Presi ciascuno per sé, invece, hanno storie più contorte, molto meno di nuovo conio. C’è per dire da farsi venire il mal di testa (e qui torna Bertinotti-Guzzanti) a ricostruire i vari passaggi della storia breve ma intensa di Sinistra italiana e di tutte le sue micro alleanze: basti dire che, erede di Sel, fu battezzata nel novembre 2015 al teatro Quirino a Roma come «alternativa al Pd» (di Renzi) e che da allora, tra alleanze varie (con Possibile e senza Possibile, coi Verdi e senza i Verdi, con Articolo 1 e senza Articolo 1) e varie fasi lunari (come scordare la fantomatica Leu), è guidata ininterrottamente da Nicola Fratoianni, il quale a questo punto sta per festeggiare il decennale da capo incontrastato, anche se dirlo non fa molto sinistra contemporanea.
Ancora più paradossale la storia di Angelo Bonelli. Eletto a Roma sin dai lontani anni Novanta, proteiforme sempreverde nella storia anch’essa complessa degli ambientalisti nostrani, Bonelli deve la sua fortuna politica a un’altra Fiuggi, quella dei Verdi 2009, quando la Federazione si spaccò in due e lui vinse la presidenza (e la titolarità preziosa del simbolo) portando avanti l’opzione autonomista, mentre gli altri andarono a fondare Sel con Nichi Vendola. È da allora, sostanzialmente, che Bonelli guida gli ambientalisti in modo abbastanza monarchico (la leadership sarebbe condivisa: ma la lei dell’accoppiata è sempre accuratamente in ombra). In totale ha ormai superato i tre lustri, ma è super attivo in presenze tv e dichiarazioni e non si vede all’orizzonte il senso di immaginargli una successione. Soprattutto adesso che, membro della Vigilanza Rai, il leader verde si trova nella preziosa posizione di poter col suo solo voto (se volesse) far superare lo stallo che da oltre un anno impedisce l’elezione del presidente Rai, il che lo rende corteggiatissimo da chiunque si senta adatto a rappresentare una valida alternativa alla designata dalla destra, Simona Agnes.
Nel frattempo le elezioni si succedono, e i paradossi pure: adesso in Puglia corre con Avs il presidente di Sinistra Italiana, Nichi Vendola. Contro cui Bonelli nel 2010 presentò l’esposto all’origine dell’inchiesta Ambiente svenduto, che mise sotto accusa la gestione dell’Ilva, e contro cui si presentò candidato sindaco a Taranto, nel 2012. Quell’anno, nel comizio finale in città, Vendola lo definì «un piccolo avvoltoio che cinicamente è venuto qui per costruire la sua fortuna elettorale». All’epoca nelle giunte pugliesi c’era anche Fratoianni, assessore alle politiche giovanili. Ma sono storie che nessuno rivanga più. Anzi, ha spiegato Bonelli nei giorni in cui Antonio Decaro spingeva per farlo ritirare dalle liste regionali, che «Vendola è un patrimonio politico e culturale, per la Puglia e per il Paese».
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