Politica
21 novembre, 2025Articoli correlati
Sembra scontata la vittoria del leghista Stefani sul “panda dem” Manildo. La vera sfida, però, è quella dell’ex governatore che vuole battere la premier sul numero delle preferenze
È come la Puglia, ma senza la soap opera edipico-levantina intrecciata da Antonio Decaro con Michele Emiliano; è come la Campania, ma senza l’epopea western di Vincenzo De Luca (and sons) con relativa ammucchiatona; insomma, il Veneto ha come pregio una chiarezza ortogonale, squisitamente nordica, che però riluce tanto quanto deprime.
Tra le Regioni al voto in questo autunno, è quella che mostra meglio di tutte fino a che punto la politica, soprattutto a livello locale – nella debolezza di partiti che sul territorio di rado riescono a coinvolgere e a entusiasmare – sia scivolata nel mero assemblaggio di filiere di potere, più che avvilupparsi nel movimento reale di militanti, di cittadini, di umori, si vorrebbe dire addirittura (alla leghista) di popoli. Una lotta all’ultimo voto, all’ultima preferenza, più che una sfida alla visione, al cambiamento, al rilancio: accade anche nelle altre Regioni, ma qui ancora di più.
Dicono, per esempio, che l’obiettivo principe del leghista sui generis Luca Zaia, governatore uscente, Doge incontrastato, uno che da almeno 15 anni fa sognare (anche da sinistra) chi spera in un altro Carroccio, più liberale e meno iper-securitario, costretto adesso anche lui a lasciare la scena regionale dal solito limite del terzo mandato (ed è l’unico ad averne fatti tre e mezzo), pare che l’obiettivo di Zaia – dicevamo – sia quello di superare, da capolista della Lega in tutte le circoscrizioni, le 227.469 mila preferenze incassate da Giorgia Meloni in Veneto alle ultime Europee.
Insomma lavare l’onta di quando per la prima volta nella sua storia la Lega è stata surclassata dai Fratelli d’Italia in quella che, da “Tangentopoli” in poi, è sempre stata casa sua, perdendo la competizione interna con uno schiacciante tre a uno per i meloniani (37,5 per cento contro 13,1). Poi, solo poi, Zaia ci farà sapere che cosa vuole fare del futuro suo e di chi lo segue.
È, d’altra parte, lo stesso Matteo Salvini che si gioca parecchio, quasi tutto, in questo Veneto. Se il voto del 23 e del 24 novembre prossimi dovesse confermare il sorpasso, già avvenuto alle Europee, di Fratelli d’Italia sulla Lega, ciò decreterebbe di fatto la fine della supremazia leghista al Nord, dopo che già con la scorsa legislatura il salvinismo aveva visto svanire le proprie aspirazioni a diventare movimento nazionale (i tempi di Salvini premier). Un terremoto che arriverebbe a scuotere anche il governo di Roma e i suoi equilibri dissimmetrici, ma sin qui stabili, tra il partito grande di Giorgia Meloni e i partiti satelliti di Matteo Salvini e di Antonio Tajani.
Tutto questo è al momento issato sulle spalle del giovane, della new entry, del prescelto prossimo governatore leghista, Alberto Stefani. Trentatré anni, segretario della Liga veneta, vicesegretario del Carroccio, apparentemente un salviniano doc, definito addirittura «ragazzo prodigio» dal Corriere della Sera, è candidato a fare il presidente-ostaggio (ostaggio dei meloniani, in un consiglio con la Lega ridimensionata) e chiamato a reggere con il suo ciuffo ribelle il compromesso gattopardesco in virtù del quale tutto deve cambiare perché nulla cambi.
E, per quanto non scintilli, Stefani è abile nel barcamenarsi. Commissariato, ma non troppo; mite, ma non troppo; tra la gente, ma non troppo. In queste settimane lo si è visto nei mercati e ancora di più lo si è saputo in giro per incontri mirati e riservati: imprenditori, categorie, nelle piazze molto meno. Non ha certamente voluto fare polemiche (anche il solito interventismo del generale Roberto Vannacci è stato parecchio arginato), ha lanciato promesse elettorali senza esagerare (primo impegno da neoeletto? Da brividi: istituire un assessorato per il Sociale e aprire un tavolo anti-burocrazia con le aziende), sicuramente non si è lanciato in bagni di folla: ormai è più il rischio che il guadagno, visto che, tanto, chi deve votare voterà lo stesso.
Gli slogan, da questo punto di vista, dicono tutto. Dal suo «Sempre più Veneto» a quello del governatore uscente, «Dopo Zaia scrivi Zaia», che è un capolavoro inciso da Escher, una mano che disegna sé stessa, quella che il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, chiamerebbe una cattiva infinità hegeliana. Accrescitivi, tautologie, continuità che fanno il giro attorno all’unico grande vero avversario, che è l’astensione. Un mostro che in Veneto è meno grande che altrove (alle ultime Regionali votò il 61 per cento, alle Politiche si è sfiorato il 70 per cento), ma che anche qui non mancherà di farsi sentire.
Tanto più che Stefani – come, a parti invertite, Decaro in Puglia – ha oltre trenta punti di vantaggio sul suo sfidante, il volenteroso avvocato Giovanni Manildo che, a suo tempo, seppe strappare a Giancarlo Gentilini il ruolo di sindaco di Treviso e che gira la Regione in campagna elettorale addirittura da luglio, scelto pacificamente da un campo più che largo, larghissimo, mentre nel resto d’Italia si litigava.
Onesto, funzionante, latore di una linea moderata che, sull’onda dell’ultima tendenza anche nazionale, non disdegna di parlare di sicurezza e anzi, per dirne una, ha portato a candidare anche un poliziotto-scrittore, l’ex direttore della scuola di polizia di Peschiera del Garda, Gianpaolo Trevisi, per il quale sono accorsi in sostegno sia Pier Luigi Bersani sia Franco Gabrielli. Ma tutti sanno che quella di Manildo, ex boy scout ed ex alpino, all’epoca soprannominato per scherzo dal suo superiore «panda da combattimento» per la sua aria placida, è ben più che una missione impossibile.
La stessa battaglia persa che conduce il candidato del centrodestra, Luigi Lobuono, in Puglia, ma anche, con meno evidenza, Edmondo Cirielli in Campania, dove – dicono – il viceministro di Fratelli d’Italia stia perdendo terreno sul grillino Roberto Fico, anche rispetto agli ultimi sondaggi pubblicabili.
Sembra, insomma, davvero una stagione degli uomini soli: al comando, al quasi comando, soli e isolati anche in uscita. I destini degli ex governatori poi, in verità, non sono mai esaltanti: basti guardare dopo l’incarico come sono finiti, ciascuno a suo modo, personaggi di stagioni passate come il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, e quello della Campania, Antonio Bassolino, il toscano Enrico Rossi e il campano Stefano Caldoro, ma anche, per stare ai più recenti, Nicola Zingaretti e Stefano Bonaccini.
Si capisce forse allora un po’ meglio come mai gli uscenti abbiano fatto così fatica a lasciare la poltrona che avevano tenuto per due mandati, mentre si conclude questa lunga campagna elettorale regionale che ha visto i contrapposti eserciti combattere soprattutto al proprio interno, la sinistra dentro sinistra, la destra dentro destra. Mentre fuori tante persone normali osservavano l’intera partita quasi fosse un torneo di golf, il match di uno sport per pochi eletti.
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