Politica
21 novembre, 2025Falso parlare di separazione delle carriere, in ballo c’è l’autonomia della magistratura dal potere, dice Silvia Albano, presidente di Md. L’accusa diventerebbe una superpolizia da regolare per legge. E il sorteggio per i due Csm non è un antidoto alle pressioni. Anzi le libera da ogni controllo
Silvia Albano, giudice, presidente di Magistratura democratica, guida la sezione immigrazione del tribunale civile di Roma. In questa veste si è occupata dei Cpr in Albania.
Presidente Albano, è ben nota la sua contrarietà, come pure quella dell’intera Anm, alla riforma costituzionale che prevede la separazione delle carriere dei magistrati. Per quale motivo lei è contraria ad una riforma sulla cui opportunità si discute da decenni?
«Ritengo che chiamare questa riforma “separazione delle carriere” sia assolutamente fuorviante. Non è questo il cuore della riforma, che riguarda la separazione della magistratura – con la creazione di due magistrature – la divisione del Csm e il suo depotenziamento – con l’elezione per sorteggio dei componenti togati e la sottrazione ad esso della funzione disciplinare. Del resto, nemmeno nel titolo della legge approvata si fa riferimento alla separazione delle carriere. Quindi direi che non si discute da decenni di “questa” riforma. Ad esempio il progetto di cui si era discusso nella Bicamerale è già sostanzialmente realizzato, manca solo la divisione di un unico Csm in due sezioni che non escludevano comunque il suo funzionamento in plenaria, perché la separazione delle carriere già c’è: si può passare da una funzione all’altra per una volta sola nei primi nove anni di servizio e solo cambiando regione».
Ritiene che questa opinione, cioè la contrarietà alla separazione delle carriere, sia condivisa da tutti, o perlomeno dalla gran parte, dei magistrati italiani? Anche dei magistrati giudicanti?
«Dal 99,9 per cento di tutti i magistrati italiani, giudicanti e pm».
Non crede, invece, che i magistrati giudicanti usciranno rafforzati, sia nel concreto che come immagine, dalla riforma costituzionale?
«Credo che ne usciranno indeboliti. Perché non sono considerati in grado nemmeno di eleggere i propri rappresentanti al Csm. Perché ci sarà un Csm debole nella componente togata rispetto alla quale non ci sarà più la possibilità di nominare i migliori e garantire il pluralismo delle idee sulla giustizia e sull’autogoverno. Perché eliminando l’elezione non ci saranno consiglieri che si sentiranno in dovere di rendere conto all’elettorato e verranno favoriti rapporti opachi e cadute etiche. Perché attualmente i pm sono governati dai giudici: su 20 componenti togati solo 5 sono pm. Con la riforma, i pm costituiranno un potere autonomo dello Stato, fuori dalla giurisdizione, potentissimo non solo per i mezzi di cui dispone (la direzione della polizia giudiziaria) ma anche perché si governerà da solo, alimentando l’autoreferenzialità dei pubblici ministeri».
Questa riforma che conseguenze avrà sulla qualità della giustizia in Italia?
«Credo che il possibile esito sarà la creazione di un corpo giudicante intimidito, perché non ci sarà più un organo costituzionale autorevole in grado di garantirne la reale indipendenza, più soggetto ai ricatti e alle intimidazioni dei potenti, e quindi meno in grado di garantire i diritti dei cittadini e l’effettiva uguaglianza di fronte alle legge».
Cosa risponde a chi sostiene che con la separazione delle carriere verrà garantita la terzietà del magistrato giudicante, prevista dall’articolo 111 della Costituzione?
«Che il giudice sia effettivamente terzo lo dicono i numeri: quasi il 50 per cento di assoluzioni, anche in processi di grande rilevanza mediatica e sui quali le procure si giocano “la faccia”. Se poi si ritiene che il giudice non sia terzo perché condivide lo stesso concorso, la stessa associazione e lo stesso Csm con i pm allora bisognerebbe separare anche i giudici di primo grado, i giudici di appello e i giudici di Cassazione. Ci può essere il giudice negligente, ma la riforma questo problema non lo risolve. Credo che il cittadino avrebbe un danno, invece, se il pm uscisse dalla giurisdizione e si avvicinasse sempre più alla cultura della polizia, ricercando la condanna a ogni costo. Quante volte è lo stesso pm che all’esito del giudizio chiede l’assoluzione dell’imputato? Credo succederebbe sempre meno».
Le carriere di giudici e pubblici ministeri sono separate in tutte le democrazie occidentali in cui vige il sistema accusatorio. Perché in Italia non si potrebbe fare? Quali rischi potrebbero esservi in Italia che invece non si sono registrati in altri Paesi?
«Ribadisco che questa riforma non è sulla separazione delle carriere ma contiene molto altro. Io non so se il nostro modello possa essere il processo americano con un pm elettivo che risponde alla politica e ai suoi elettori invece che alla legge. Il modello italiano era guardato con invidia in Europa come modello molto più garantista di altri. In altri Paesi europei dove il pm è fuori dall’ordine giudiziario non è indipendente, è soggetto alla politica e alle sue direttive ed è inevitabile che sia così per i motivi che dicevo prima. In ogni caso finché da parte della politica c’è una cultura istituzionale fondata sul rispetto dell’autonomia dei pubblici ministeri il sistema potrebbe anche funzionare, i costituenti hanno voluto evitare che l’autonomia dei pubblici ministeri fosse affidata alla sensibilità della maggioranza di turno. E questa maggioranza ha già più volte dichiarato a cosa serve questa riforma insieme a quella della Corte dei Conti: a evitare l’invadenza dei giudici nei confronti della politica e delle scelte del governo. Solo che in una democrazia la politica dei governi deve svolgersi nell’ambito della legalità, prima di tutti nei limiti sanciti dalla Costituzione, come previsto nel suo articolo 1. L’indipendenza della magistratura serve a garantire anche questo».
Anche lei paventa il rischio che il pm possa diventare dipendente dal potere esecutivo. Oggettivamente il testo della legge costituzionale non prevede questa eventualità e quindi da cosa nasce questo timore? Quali segnali ci sono, secondo lei, in tal senso? Di fatto, attraverso quali modalità potrebbe avvenire questa sottoposizione della magistratura inquirente al potere esecutivo?
«Se si crea un super potere di pubblici ministeri questo sarà il destino inevitabile per contenerne la giurisdizione. Questo rischio è stato messo in evidenza anche da esponenti della maggioranza come il senatore Marcello Pera. I modi per limitare l’autonomia e l’indipendenza non solo dei pm ma anche dei giudici possono essere molteplici, senza nemmeno bisogno di modificare la Costituzione. A seguito di questa riforma ci sarà bisogno di riscrivere completamente le norme sull’ordinamento giudiziario e anche per questa via si potrà fare molto, ad esempio modificando i rapporti tra pm e polizia giudiziaria o stabilendo una ancora più forte gerarchizzazione degli uffici di procura a fronte del fatto che aumenterà il peso della componente politica del Csm dimezzato nella nomina dei capi».
In effetti al no alla riforma si arriva anche proprio per il timore che con la separazione delle carriere il ruolo ed il peso del pm possa uscirne addirittura rafforzato, trasformandolo in una sorta di “super-poliziotto”. Ma ritiene davvero che la mera previsione di due Csm porterebbe il pm a non ricercare le prove anche a favore dell’indagato come imposto dalla legge? E se così fosse, non crede che sia un problema di natura deontologica, etica e professionale e, in casi estremi, penale, e non di natura ordinamentale?
«Tra comportamenti per i quali si può effettivamente accertare una responsabilità penale o disciplinare del pm che non cerca la prova a favore dell’indagato e la quotidianità delle prassi – il modo in cui si conducono le indagini, i rapporti con la polizia giudiziaria – ci corre proprio un mare. Davvero non credo convenga ai cittadini un pm con la mentalità del poliziotto, senza nulla togliere alla polizia, ma svolge proprio un altro mestiere».
Il sorteggio dei componenti togati al Csm obbedisce alla logica di disarticolare le appartenenze, le correnti. Non crede che almeno in questo la riforma vada nella direzione giusta?
«Sorteggiare i componenti di un organo di tale rilevanza costituzionale è sicuramente un modo per sminuire l’autorevolezza e la natura dell’organo. Si dice che si vogliono evitare nomine per appartenenza, ma in realtà il mestiere del giudice è molto diverso rispetto ai compiti di autogoverno che devono svolgere al Csm e non tutti hanno la cultura e le attitudini per svolgerlo nel modo migliore. Ribalterei la domanda retorica oggi più in voga: pensiamo davvero che i giudici in grado di comminare ergastoli non siano in grado di eleggere i propri rappresentanti al Csm? I sorteggiati saranno completamente deresponsabilizzati, non avendo alcun dovere di rendere conto della coerenza del proprio operato e alcuna responsabilità politica per questo. Le opacità e le cadute etiche saranno in realtà favorite da questo sistema, il sorteggiato, solo davanti alle proprie scelte, potrà comunque subire pressioni o favorire relazioni opache».
Le faccio una domanda di cui in ragione della sua storia personale e dei ruoli associativi ricoperti immagino già la risposta ma vorrei che lei ne spiegasse le ragioni: le correnti in magistratura sono davvero il male assoluto?
«I gruppi associativi, espressione del pluralismo delle idee dentro la magistratura, sono stati un grande momento di crescita per la giurisdizione e per l’acquisizione della consapevolezza del proprio ruolo. Lo scambio di idee sul modello di magistrato, sul ruolo della giurisdizione, sui contenuti della giurisprudenza e l’apertura alla società e alle sue istanze di giustizia, hanno fatto crescere la magistratura culturalmente e professionalmente. Al congresso dell’Anm del 1965 a Gardone è nata l’idea del giudice “costituzionale”, con la responsabilità di far vivere la Costituzione dentro un ordinamento ancora in gran parte di derivazione fascista. Sono state una garanzia di partecipazione democratica dei magistrati all’elaborazione della cultura dell’autogoverno e alle sue scelte e contribuiscono a garantire l’indipendenza della magistratura. Sarà, infatti, molto più facile intimidire un giudice solo di fronte ai potenti, rispetto a un giudice che sa che ci sarà la sua associazione a difendere la sua indipendenza. Difesa che non può e non deve essere corporativa e a “prescindere”. L’associazionismo deve, indubbiamente, coltivare la critica e l’autocritica, molto di più di quanto abbia fatto finora, solo così difenderà anche l’autorevolezza della magistratura e riconquisterà la fiducia dei cittadini, contribuendo a far crescere ancora la cultura professionale dei magistrati».
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