Politica
22 dicembre, 2025È pubblicizzato come antidoto ai non voto, ma è solo un espediente della propaganda. Alle elezioni dove la scelta diretta esiste, il numero degli elettori cala ugualmente
Ignazio La Russa lo dà per scontato. Il referendum sulla riforma costituzionale del premierato si farà nella prossima legislatura e «si riuscirà a ottenere il risultato che vogliamo», prevede il presidente del Senato alla festa di Atreju. Ma dovrebbe ricordare bene com’è andata vent’anni fa, perché lui c’era. E la storia, com’è noto, ha il brutto vizio di ripetersi.
Anche nel 2006 il referendum sulla riforma costituzionale voluta dal medesimo centrodestra di oggi, ma con Silvio Berlusconi alla guida del governo anziché Giorgia Meloni, si tenne nella legislatura successiva. La maggioranza che l’aveva approvata era uscita sconfitta dalle elezioni e gli elettori bocciarono anche la sua riforma. Andò a votare più del 50 per cento e i «no» superarono il 60. Quella riforma introduceva una specie di premierato simile per certi versi a quello di oggi rafforzando notevolmente i poteri del presidente del Consiglio. Con in più l’eliminazione del bicameralismo perfetto, riproposta da Matteo Renzi dieci anni dopo, ma bocciato dal referendum del dicembre 2016, e il taglio del numero dei parlamentari poi riproposto dai grillini e stavolta approvato dal referendum dell’autunno 2020. Per completezza d’informazione, la riforma del centrodestra di Berlusconi venne sconfitta in tutte le Regioni tranne Lombardia e Veneto.
Certo, era un’Italia diversa. Così diversa da risultare, per la partecipazione alla politica dei cittadini, irriconoscibile. Alle elezioni politiche della primavera 2006 votò l’81,2 per cento degli aventi diritto: 40,4 milioni, italiani all’estero compresi. A settembre del 2022 ha votato appena il 60,5 per cento, quasi 21 punti in meno: in tutto 30,7 milioni. In 16 anni sono andati perduti 10 milioni di elettori, un quarto di chi aveva votato nel 2006. E per dire quanto il Paese sia cambiato, fra il 2006 e il 2022 il numero dei nostri connazionali che votano all’estero è più che raddoppiato, da 2 milioni 707.382 a 4 milioni 743.980. A testimoniare il ritmo con cui è ripresa l’emigrazione.
Dunque se è scontato, come dice La Russa, che il referendum costituzionale si farà la prossima legislatura, sempre che la maggioranza riesca a completare il percorso parlamentare fermo ormai da un anno e mezzo, il risultato, invece, scontato non è affatto. E lo sa bene pure chi su quella riforma ha puntato tutto, cioè la premier. Mai prendere con sufficienza le parole del sottosegretario alla presidenza Giovanbattista Fazzolari, per Giorgia Meloni l’uomo «più intelligente che abbia conosciuto», e quindi suo prezioso consigliere. Ecco il suo piano, spiattellato giusto poche ore dopo le elezioni regionali del 23 novembre: «Il referendum con ogni probabilità si terrà nella prossima legislatura, a quel punto sarebbe bene avere una legge elettorale che rispecchi quella che dovrà essere adottata con la forma del premierato. Credo che il sistema per sindaci o Regioni, dove l’elettore sa chi sarà a guidare il governo, è il modello. Un proporzionale con premio di maggioranza e indicazione del presidente del Consiglio». Potrebbe essere un modo, sostiene Fazzolari, anche «per interessare chi non fa politica». O chi ha smesso di votare. Il succo? Se non passa il premierato per riforma costituzionale, passerà con legge elettorale.
La tesi secondo cui l’elezione diretta del capo sia «un antidoto all’astensionismo», come afferma la ministra delle Riforme Maria Elisabetta Alberti Casellati, è una delle argomentazioni principali dei sostenitori del premierato. Anche se l’esperienza dice esattamente il contrario. L’elezione diretta del capo in Italia è già stata introdotta dal 1993, per i Comuni, e dal 1999 per le Regioni. E in tutte le elezioni comunali e regionali più recenti l’astensionismo è cresciuto ancora più che nelle elezioni politiche generali. Il sindaco di Roma Roberto Gualtieri è stato eletto nel 2021 al secondo turno con un’affluenza del 40,68 per cento. Dieci punti in meno rispetto al 2016, quando fu eletta Virginia Raggi, quasi 23 in meno rispetto al 2008 (Gianni Alemanno) e 34 in meno rispetto al 1997 (Francesco Rutelli).
Per non parlare delle ultime elezioni regionali. In vent’anni e quattro tornate, l’affluenza in Campania è scesa di oltre 23 punti, dal 67,69 al 44,1 per cento; in Veneto è calata di oltre 27 punti, dal 72,43 al 44,65 per cento: in Puglia, di quasi 29, dal 70,49 al 41,83 per cento.
Al crollo del numero dei votanti si è accompagnata ovviamente l’emorragia dei consensi per i singoli partiti. In confronto al picco massimo di voti raggiunto alle politiche del 2022, Fratelli d’Italia ne ha persi alle ultime Regionali più di 165 mila in Campania, circa 160 mila in Puglia e più di mezzo milione in Veneto, dove il partito della premier è sceso da 821.620 a 312.839 preferenze. Sempre rispetto al picco massimo, toccato questa volta alle Europee del 2019, la Lega di Matteo Salvini ha ceduto 297 mila voti in Campania, 309 mila in Puglia e ben 627 mila in Veneto, il suo maggiore bacino elettorale. Non è andata meglio al Partito democratico, che in confronto al record delle Europee 2014 ha perduto 206 mila preferenze in Puglia, 462 mila in Campania e 622 mila in Veneto. Nulla di paragonabile, tuttavia, al disastro del Movimento 5 stelle che rispetto alle Politiche del 2018 ha perso 660 mila voti in Veneto, più di 885 mila in Puglia e un milione 300 mila in Campania dove aveva fatto il pieno promettendo il reddito di cittadinanza.
E se nel 2021 Giorgia Meloni diceva che «quando c’è un astensionismo intorno al 50 per cento non è una crisi della politica, ma della democrazia», una volta al governo ha ammesso nella sua rubrica social che si tratta invece di «una sconfitta della politica» (19 febbraio 2023). Che perciò difficilmente si può curare cambiando le regole della democrazia. Bensì riportando la politica alla sua funzione, perduta ormai da troppo tempo. Ma di questo problema i partiti non si curano, mentre cresce in silenzio in Italia un premierato strisciante.
Lo spiega bene nel suo saggio “Capocrazia”, pubblicato nel 2024 per i tipi della Nave di Teseo il costituzionalista Michele Ainis. Raccontando come negli anni più recenti il governo «si sia sostituito al Parlamento, usurpandone i poteri». E «all’interno del governo si è via via gonfiato il ruolo del presidente del Consiglio, benché l’articolo 95 della Costituzione gli attribuisca unicamente funzione di direzione e coordinamento dei ministri».
Sostiene Ainis che la deriva è cominciata negli anni Novanta, a cavallo della crisi della cosiddetta prima Repubblica. Con l’abuso del decreto legge, strumento che i costituenti avevano pensato per i soli casi di vera estrema urgenza. Va però detto che la cattiva abitudine era iniziata già prima. Nel 1987, anno dell’ultimo governo di Bettino Craxi che dopo le elezioni politiche di giugno passò il testimone a Giovanni Goria, si sfornarono la bellezza di 163 decreti legge. Niente, però, in confronto a un altro anno elettorale, il 1996, diviso a metà fra Lamberto Dini e Romano Prodi, quando la bulimia della decretazione raggiunse il massimo di 362 decreti legge in 365 giorni.
L’abuso dei decreti ha ridotto il ruolo del Parlamento a una semplice funziona notarile di ratifica delle decisioni prese a palazzo Chigi dal presidente del Consiglio e dai suoi ministri. Ulteriormente mortificato, quel ruolo costituzionale, grazie ad altri meccanismi escogitati dalla politica per aggirare il detto costituzionale, come sottolinea Ainis. Per esempio il ricorso sempre più frequente alle leggi delega, con cui il Parlamento firma al governo delle cambiali in bianco. Succede regolarmente con le riforme di sistema, dall’anticorruzione al fisco. Soprattutto, c’è l’utilizzo sistematico al voto di fiducia, che di fatto ha abolito perfino la possibilità di discutere nell’assemblea dei nostri rappresentanti il merito dei provvedimenti dell’esecutivo. Non è forse già questo un surrogato del potere assoluto di palazzo Chigi?
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