Non si dimette, non si sente sola, non ha paura nemmeno per le sue borse. La titolare del Turismo parla alla Camera a suon di «tacco dodici». Bocciata la mozione di sfiducia, ai Fratelli d'Italia resta l'imbarazzo

Non si dimette, non si sente sola, non ha niente da temere, neanche il ridicolo: «Nelle mie borse non c’è paura, ci vedremo in tribunale», arriva a dire. L’intervento di Daniela Santanchè alla Camera in occasione del voto di sfiducia su di lei, il secondo in questa legislatura, è a suo modo la quintessenza di un’epoca. Rinviata a giudizio per falso in bilancio e accusata di truffa ai danni dell’Inps, non difesa dai big della maggioranza e anzi oggetto da settimane di un pressing del suo partito perché lasci il posto, la ministra del Turismo si fa protagonista di una difesa di se stessa che è senza precedenti. Almeno in questa legislatura, perché di colpo la sua scena fa tornare in mente il più allucinogeno tra i momenti parlamentari recenti: quando quindici anni fa, nel 20210, il centrodestra fu costretto a sostenere con un voto in Parlamento la tesi che Ruby Rubacuori fosse la nipote di Mubarak.

Una autodifesa, quella di Santanchè, tutta nel segno della personalizzazione della «donna libera» che gira col «tacco 12»: «Sono l’emblema di tutto ciò che detestate, lo rappresento plasticamente. Voi non volete combattere la povertà ma volete combattere la ricchezza». Tutto nel segno della drammatizzazione: «La gogna mediatica è un ergastolo che non scompare, un ergastolo mediatico, fine pena mai». Tutto all’insegna di un rilancio che non si ferma neanche davanti alla negazione dell’evidenza: «Non mi sento sola anzi ringrazio i tanti colleghi al mio fianco», dice Santanchè. In realtà sul banco dei ministri sono presenti per lo più le seconde file. Il disagio è palpabile, Casellati guarda altrove, Bernini le siede proprio accanto e neanche si sfila il cappotto, limitandosi a scansarsi quando Santanchè sbraccia troppo. Nei banchi della maggioranza c’è aperto imbarazzo. La applaudono soltanto i Fratelli d’Italia, sempre meno convintamente, qualche volta anche non riescono. Qualcuno, nei passaggi più hard, si alza in piedi nervosamente. Anche ascoltare è difficile. C’è addirittura chi manda messaggi di solidarietà al presidente di turno, il forzista Mulè.

 Sia pure di Fratelli d’Italia, sia pure eletta anche con An, Santanchè rappresenta l’esatto opposto della destra di Giorgia Meloni. Che al limite si è vantata di essere un’underdog, non della propria collezione di borse. Ancora si ricordano in via della Scrofa, che abisso di alienazione fu, quando la ministra del Turismo divenne responsabile del dipartimento donne, e almeno sulle prime anziché dei documenti si occupava del corredo di gadget per i convegni. La soffrono, ora come allora. Anzi adesso forse di più: perché è la loro ministra, li rappresenta.

Non si sente sola, Santanchè, ma ribadisce che da sola deciderà per quel che riguarda le proprie dimissioni: «Da sola, senza pressioni». Un giorno, lascia intendere, forse le darà. Bisogna intanto arrivare alla prossima udienza, ricordarsene. Ma senza pressioni, ci mancherebbe. Neanche lei è ricattabile. Il suo regno è uguale e contrario a quello di Giorgia Meloni. Sola, sciolta da tutto. Capace proprio per questo di mettere davvero in imbarazzo la premier. Ecco perché come rilevano prima Giuseppe Conte, poi Elly Schlein, è proprio quello il clamoroso punto di frattura. «Difende le borsette e non gli italiani dalle bollette», dice la segretaria dem. Il danno per la premier è incalcolabile, va persino oltre indimostrabili ricatti, ma evidentemente è anche inevitabile. Il vicepremier leghista Matteo Salvini che pure si aggira per Montecitorio, si guarda bene dal fare capolino per dire qualcosa e alleggerire il peso alla premier. A fine giornata la mozione è respinta con 206 voti e un astenuto (134 a favore della sfiducia), nessuno si era immaginato un finale diverso.

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