Su sicurezza ed energia siamo deboli. Colloquio con Roberto Garofoli

Investire in deterrenza e fonti vitali per lo sviluppo, le rinnovabili non bastano, dice Roberto Garofoli, sottosegretario di Mario Draghi a palazzo Chigi

Quella chiamata non l’avrebbe potuta rifiutare. «Ha significato, per me, rinunce personali, ansie e attenzioni che non avevo mai cercato», racconta Roberto Garofoli, seduto dietro a una scrivania di legno usurato dai tomi di diritto. «Tuttavia, ho percepito quanto fosse importante, in quel momento, dare un contributo al Paese». Terminata l’esperienza da sottosegretario a Palazzo Chigi, il giudice è tornato a dividersi tra Molfetta, dove ha casa, e il Consiglio di Stato. Insieme al professore di Diritto amministrativo Bernardo Giorgio Mattarella, ha scritto il libro “Governare le fragilità”.

 

Garofoli, lei ha operato nel cuore del governo, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio quando a Palazzo Chigi c’era Mario Draghi. Ora, insieme a Bernardo Giorgio Mattarella, pubblica un libro sulle debolezze dell’Italia. Le ha osservate da vicino?

«Nel libro le abbiamo chiamate fragilità. Abbiamo fotografato le debolezze del sistema italiano che più incidono sulla competitività, nella convinzione che sia a repentaglio la nostra sicurezza nazionale, oggi molto più che in passato».

 

Sono fragilità storiche, come l’approvvigionamento energetico. Cos’è cambiato?

«Il mondo è cambiato. Sulla logica di cooperazione tra Stati, ormai, è prevalsa un’idea di forte competizione, se non addirittura di guerra. In questo contesto, le nostre debolezze energetiche, le nostre debolezze idriche, le nostre debolezze economiche, oltre alle complicazioni amministrative e giudiziarie, ad esempio, sono molto più pericolose che in passato».

 

Quali sono gli interventi più urgenti per rafforzare, e quindi proteggere, l’Italia e l’Europa?

«Non so se riesco a fare una gerarchia. Mi pare non ci sia dubbio sulla difesa europea. Poi annovererei la politica energetica, l’innovazione industriale e la ricerca. Sono settori problematici in quasi tutti gli Stati europei. Sono i grandi problemi della Germania: il governo che si formerà dopo le elezioni dovrà affrontare la crisi del sistema industriale tedesco, che non è legata soltanto alla difficoltà di trovare mercati di sbocco a causa dei dazi, ma anche al costo di energia e gas che, in passato, i tedeschi compravano a buon prezzo. Questo mondo è finito e la Germania, come l’Italia, dovrà conquistare spazi di autonomia energetica. Anche perché il fabbisogno energetico è destinato ad aumentare: basti pensare ai data center per l’intelligenza artificiale per i quali si chiede l’allaccio nell’area di Milano».

 

Oggi è un’utopia riconvertire il sistema energetico e renderlo integralmente basato sulle energie rinnovabili?

«Lo è senz'altro, nel senso che la continuità e la sicurezza del nostro sistema elettrico sono garantite dall'energia che ci vendono i francesi, che la producono con il nucleare però. Senza il loro apporto, si interromperebbe il nostro sistema elettrico. In futuro temo che la quantità di energia di cui avremo bisogno non riusciranno a darcela il sole e il vento».

 

Tornando alla prima fragilità che ha citato, l’assenza di una difesa comune europea, è diventato centrale nel dibattito il tema dello scorporo delle spese militari dai vincoli di bilancio. È altrettanto utopistico immaginare che ragionamenti di questo tipo si facciano per il welfare, l’istruzione, la ricerca, e non per le armi? 

«Purtroppo, nel mondo c’è una corsa agli armamenti e abbiamo una guerra alle nostre porte. Tutti abbiamo l’ambizione della pace, ma bisogna calibrare le speranze con la realtà. E la realtà è che il mondo è in forte deterioramento. Occorre difendere il patrimonio di valori in cui abbiamo sempre sperato: la diplomazia è la prima strada da tentare, ma se c’è qualcuno che vuole fare la guerra a tutti i costi, bisogna dotarsi di capacità di deterrenza».

 

Difesa a parte, serve comunque incrementare la spesa pubblica. L’Italia può permetterselo?

«Nel 2023, in totale, lo Stato ha speso 1.150 miliardi, una cifra che supera quella delle entrate pubbliche. È così ogni anno. Non mancano sprechi e inefficienze nella spesa pubblica. Tentativi di ridurla ci sono stati, ma non è facile. Esistono ostacoli difficili da superare, come l’innalzamento dell’età media che determina inevitabilmente più spesa previdenziale e assistenziale, ma esistono anche molte resistenze nelle platee di soggetti che, ad esempio, beneficiano di agevolazioni fiscali ormai anacronistiche. Più che parlare di tagli, si tratta di razionalizzazione: penso a enti pubblici inutili che potrebbero essere accorpati o eliminati. Ma non è semplice per i decisori politici».

 

Sembra un programma che può essere portato avanti solo da un governo tecnico.

«No, è l’esatto contrario: solo un governo assai politico può affrontare temi che impattano sulla vita della popolazione e sul futuro del Paese. Sono tutte scelte politiche. Poi bisognerebbe intendersi su cosa significhi davvero governo tecnico. Qualsiasi esecutivo deve avere un sostegno parlamentare: inizia con la fiducia delle Camere e deve conservarla, altrimenti cade».

 

Il governo Draghi è stato un governo tecnico?

«No, era caratterizzato da profili politici espressi dai partiti che sostenevano quel governo, cioè pressoché tutti, perché era un governo di unità nazionale. Certo, vi erano anche degli innesti tecnici, ma questa è una qualificazione che attiene alla composizione, non alla natura del governo. L’esecutivo Draghi è stato politico perché ha affrontato temi politici. Ha affrontato l’emergenza pandemica: la scelta di ridurre o meno le libertà personali per evitare la diffusione del contagio era politica, non certo tecnico-amministrativa».

 

Concludendo con una domanda personale, le manca Palazzo Chigi?

«Tutti viviamo un conflitto perenne. Quando siamo nel pieno dell’impegno, delle responsabilità, del ritmo adrenalinico, non vediamo l’ora che finisca. È stato un periodo importante, bello, ma anche pieno di affanni e rinunce. Poi, però… non è andata via l’esigenza di continuare a dare un contributo al dibattito pubblico. Questo libro è anche la manifestazione di quella necessità».

 

 

Governare le fragilità”, Mondadori, è il libro scritto da Roberto Garofoli con Bernardo Giorgio Mattarella, docente di Diritto amministrativo

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