Politica
marzo, 2025

Parola d’ordine "federazione": cresce il movimento di chi chiede una maggiore integrazione tra i Paesi europei

Per contrastare Trump e Putin, l'obiettivo della difesa e di un esercito comuni appare sempre più urgente

C'è anche questo nel Manifesto di Ventotene: «Una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali». Una proposta significativa e quanto mai attuale – racchiusa nel testo di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni – che naturalmente è parte di un progetto ancora più ampio: quello che nel 1941 getta le basi del federalismo europeo, dal confino nell’isola laziale, quando è ancora lontana la sconfitta del nazifascismo. Occorre – ecco il traguardo – uno Stato federale che «spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli Stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei singoli popoli». L’obiettivo dello Stato federale europeo potrebbe uscire finalmente dall’utopia o dalle iniziative di minoranza nel momento più difficile dell’Europa politica, fra Putin e Trump e sulla base del dramma ucraino: se il ReArm Europe di Ursula von der Leyen, avallato dal vertice straordinario di Bruxelles del 6 marzo, sarà «il primo passo necessario verso la difesa europea» (Romano Prodi), spingendo anche nella direzione di un assetto federale.

 

«È sempre più chiaro che dobbiamo agire sempre più come se fossimo un unico Stato». L’appello di Mario Draghi, che rappresenta da settimane il mantra dei federalisti, dà pienamente il senso della missione cui è chiamata l’Europa, sul filo dell’urgenza che nasce anche dal rischio che la Nato vada in mille pezzi sotto i colpi di Trump. “Unione di difesa comprendente unità militari e una capacità permanente di dispiegamento rapido, sotto il comando operativo dell’Unione”: la risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 22 novembre 2023 già prevedeva un embrione di esercito europeo. Il documento, votato da una maggioranza trasversale e risicata pochi mesi prima delle elezioni europee di giugno, non è riuscito a raggiungere il Consiglio europeo per proseguire il proprio cammino fino alla convocazione della Convenzione europea. Prevedeva il superamento del voto all’unanimità e nuovi consistenti poteri al Parlamento, compreso quello di iniziativa legislativa, in una prospettiva sempre più sovrannazionale. E infatti quel progetto è considerato dal Movimento federalista europeo (fondato da Spinelli) «il tentativo più coraggioso realizzato dall’Assemblea di Strasburgo, sulla scia di quello di Spinelli del 1984», come spiega il presidente Stefano Castagnoli. Per l’Mfe, che terrà il trentaduesimo Congresso nazionale a Lecce dal 28 al 30 marzo «in anticipo rispetto alla scadenza, per l’urgenza dettata dal risultato delle elezioni americane ma non immaginando che Trump si sarebbe spinto fino a questo punto», le scelte del tycoon «dovrebbero spingere l’Europa - osserva Castagnoli - a percorrere l’ultimo tratto di strada che ancora la separa dal traguardo del federalismo». Come? L’europarlamentare del Pd Brando Benifei ormai non esclude la strada «di un nucleo ristretto di Paesi europei, partendo da chi ci sta, per poi allargare il campo». Benifei lo dice con l’esperienza di chi ha guidato a Strasburgo il gruppo dei parlamentari federalisti legati all’insegnamento di Spinelli, in concomitanza con la Conferenza per il futuro dell’Europa che nel 2022 si concluse presentando 44 proposte di riforma dei Trattati. Quella Conferenza costituì uno straordinario momento di partecipazione democratica coinvolgendo 800 cittadini, selezionati casualmente dagli Stati membri dell’Ue, aprendo la strada al voto del Parlamento europeo sulla Risoluzione poi rimasta incompiuta, perché il Consiglio europeo non fu nelle condizioni di discuterla per il no di 13 Stati. Da quest’ultimo tentativo fallito nasce appunto l’idea di riprendere il cammino partendo da un nucleo ristretto di Paesi europei che poi coinvolgano anche gli altri. «Ormai abbiamo perso quarant’anni» sottolinea Sandro Gozi, europarlamentare del gruppo di Renew Europe, l’italiano “macroniano” eletto in Francia. «Sulla politica estera comune e sulla difesa europea i tentativi risalgono al Trattato Spinelli del 1984 e al Trattato di Maastricht del 1992 ma alla fine - ricorda Gozi - non siamo riusciti a darci quella potenza militare e industriale che è necessaria. Negli ultimi anni, noi europei soffriamo una crisi esistenziale: dopo che il Covid ha messo a rischio la nostra stessa vita, la questione della sicurezza minaccia la nostra esistenza come comunità democratica davanti alla doppia sfida di Mosca e di Washington che è legata a una logica imperiale. È arrivato il momento del salto federale, che impegni i prossimi dieci anni, ma in una dimensione democratica per evitare che tutto si risolva in riunioni intergovernative, senza un rafforzamento del Parlamento europeo».

 

Al di là dei tecnicismi, il dato politico è fissato da Benifei con un’immagine d’impatto. «Cina, Stati Uniti e Russia sono tutti e tre Stati nazionali, con la variante federale d’Oltre Atlantico. Come possiamo - chiede l’europarlamentare dem - competere economicamente con Pechino e Washington e come possiamo misurarci con le minacce russe alla nostra sicurezza senza essere anche noi europei una nazione? L’Unione è oggi la somma di 27 Stati con un diverso grado di integrazione in base alle materie. Serve un’integrazione statuale più stabile, non ovviamente un Super Stato europeo. Va realizzata una struttura federale con un’autonomia dei singoli Stati nel rispetto delle specificità e delle diversità storiche. Ma una base comune deve nascere, altrimenti non ha senso, nel dibattito pubblico e nei media, raffrontare l’Europa con gli altri, che sono appunto, per quanto riguarda l’economia, Cina e Stati Uniti».

 

Un’immagine d’impatto la propone anche Massimiliano Salini, europarlamentare di Forza Italia e vicepresidente del gruppo Ppe. «Immaginiamo che l’Europa fosse stata invitata al vertice di Riad sull’Ucraina: chi l’avrebbe rappresentata? Non saremmo stati in grado di scegliere la persona. Avremmo trascorso una settimana a discutere se dovesse andare Emmanuel Macron perché è l’unico ad avere l’arsenale nucleare oppure Antonio Costa in quanto presidente del Consiglio oppure Ursula von der Leyen perché presidente della Commissione. O forse la presidente del Parlamento Roberta Metsola perché, secondo il cerimoniale istituzionale, è la prima carica europea. Non siamo nelle condizioni di stare sulle partite aperte nella forma attuale. Che poi si arrivi al federalismo è una questione complessa perché troppe diversità esistono in Europa, sarei prudente». Ed è una posizione con la quale i federalisti europei dovranno confrontarsi, senza giacobinismi e tentazioni centralistiche; nella consapevolezza che - anche qualora si partisse in Europa da “chi ci sta” - dall’altra parte della barricata ci sono i sovranisti, amici di Trump. Al centro, i Popolari europei che si divisero sulla Risoluzione del 2023 e che a maggior ragione vanno coinvolti ora. E una rassicurazione, contro il rischio di uno Stato europeo che accentri tutto, arriva proprio dal Manifesto del 1941: «Lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei singoli popoli». Spinelli, Rossi e Colorni sapevano bene cosa fosse l’Europa.

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