Musk sì o no. Sui satelliti l'Italia oscilla

INCONTRO ROMANO  Giorgia Meloni incontra Elon Musk a Palazzo Chigi nel giugno del 2023
INCONTRO ROMANO Giorgia Meloni incontra Elon Musk a Palazzo Chigi nel giugno del 2023

Starlink era pronta a concludere affari d’oro con il nostro Paese. Ma scegliere la società dell’uomo più ricco al mondo significa schierarsi con Trump. E ora il governo naviga nell’incertezza

Scusate, a che ora i satelliti di Elon Musk vengono a salvare la derelitta Italia? «Ho capito bene, ha detto proprio Musk?». Nel governo di Giorgia Meloni si finge di non sapere perché nessuno ha voglia di sapere. Una volta saputo, che farsene? Un paio di mesi fa c’era un’emergenza nazionale di satelliti di Starlink con una messe di proposte di improvvisati ingegneri aerospaziali: li usiamo per le comunicazioni sensibili, ma anche per connettere le malghe di montagna; li sfruttiamo per una rete nazionale di riserva, ma anche per interventi di chirurgia, automobili senza conducente, droni in guerra. Oggi si fanno ancora questi pensieri strani, e in retrovia incedono, ma senza propaganda. Perché Musk è un argomento sensibile, è dentro l’amministrazione di Donald Trump: è politica estera. Scegliere Musk equivale a scegliere Trump in un momento di affannosa incertezza del governo Meloni.

 

Fra le tante invenzioni utopiche (o distopiche) del genio Elon, adesso possiamo annoverare il “muskometro”, un apparecchio per interpretare la politica estera italiana: più si parla dei satelliti di Starlink, più l’Italia è allineata a Trump e viceversa. Questo è sufficiente a ribadire che la gran voglia di Starlink era soprattutto una gran voglia di carezzare Trump. Altro che lacune digitali, chi se ne frega. E qui pare comprensibile – un abbraccio solidale – l’inquietudine di Andrea Stroppa, l’ex geniaccio informatico lobbista non lobbista di Musk che si sorprende delle cacofonie italiane e provoca il governo Meloni e il partito di Meloni e ha sterzato verso il più risoluto Matteo Salvini. Il “muskometro” è impallato.

 

Analizziamo i fatti che raccontano della conquista italiana di Starlink. In queste settimane sta per completare il suo percorso parlamentare il disegno di legge Spazio. S’è discusso parecchio dell’articolo 25, perché il governo introduce una rete di riserva per la capacità trasmissiva nazionale, cioè una rete che tenga connessa l’Italia in situazioni critiche, di attacchi, di collasso. Nel testo si fa riferimento a una costellazione di satelliti a bassa quota: il principale fornitore sul mercato, non l’unico, è Starlink di Space X. Per motivi che ormai sono ripetuti più di una litania: il tempo di latenza è minore, il costo totale è minore. Stroppa non ha gradito le modifiche proposte dalle opposizioni e accolte dal governo, due emendamenti innocui nella sostanza, non completamente nella forma: uno, «garantire la sicurezza nazionale»; due, «garantire un adeguato ritorno industriale per il sistema Paese». In sé queste due frasi di modesta retorica non hanno valore, ma celano un significato ben preciso, politico, non tecnico: la rete di riserva nazionale deve – obbligo – essere nel pieno dominio delle istituzioni italiane.

 

Questo episodio si lega a un altro che ha un’importanza maggiore. Il giorno di San Silvestro il ministro Adolfo Urso (Imprese), in una riunione del Comitato interministeriale per lo Spazio che presiede, ha incaricato l’Agenzia spaziale italiana (Asi) di valutare l’ipotesi di allestire una costellazione satellitare tipo Starlink di fabbricazione italiana. A L’Espresso risulta che il parere di Asi arriverà entro l’estate, un po’ in ritardo rispetto alle previsioni iniziali, ma sarà comunque utile a raffreddare le troppe ambizioni di Musk: sì, l’Italia può costruire i suoi satelliti, ma deve recuperare molti miliardi e, parametro fondamentale, investirli per circa quattro anni. E che fare prima di questi circa quattro anni? Si possono “noleggiare” all’occorrenza i satelliti di Starlink o di altri produttori simili e addirittura mescolarli. Per un periodo definito, non per sempre. Questo dipende dal bando di gara: procedure scelte, vincoli imposti. Un bel mal di testa per Musk e i suoi adepti, che, invece, speravano di firmare in fretta una caterva di accordi miliardari. Non solo per guadagnarci, s’intende, ma pure per espugnare l’Europa sfruttando l’ingresso in Italia. Il Piave della Repubblica sono la burocrazia e le sfumature politiche.

 

Al contrario, preoccupa di più l’articolo 26 del medesimo ddl Spazio che fa cenno a enigmatiche «iniziative per l’uso avanzato dello spettro radioelettrico, in attesa della pubblicazione di normative tecniche emesse dagli organismi internazionali». Starlink ha bisogno di collocarsi in una zona alta dello spettro radioelettrico per aumentare le velocità di connessioni e dunque di accedere alla Banda E, che si pone tra 71-76 e 81-86 gigahertz e che interessa anche i satelliti geostazionari e i droni che inviano il segnale dalla stratosfera. La Conferenza mondiale delle radiocomunicazioni, due anni fa, non si è espressa sulla Banda E. Ciascuno fa le prove che crede. Gli Stati Uniti e la Romania, per esempio, hanno autorizzato una sperimentazione a Starlink. È facile ipotizzare che l’Italia possa consegnare a Starlink l’agognata Banda E. Con un pericolo storico: «In Italia nulla è più definitivo di ciò che è provvisorio», ripete il professor Antonio Sassano, studioso del settore, già presidente della Fondazione Bordoni, l’istituto di ricerca che risolve le controversie e indirizza le politiche del ministero per le Imprese. Sassano aggiunge: «L’articolo 26 sembra prefigurare uno studio autonomo dell’Italia sulle questioni di coesistenza di servizi di operatori diversi. Fin qui niente di male. Ma l’obiettivo nazionale dovrebbe essere quello di contribuire alla formazione di una posizione comune europea da portare alla prossima Conferenza come “European Common Proposal” e non ad aprire varchi all’uso provvisorio di importanti porzioni di spettro e a far trovare Europa e organismi internazionali di fronte al fatto compiuto».

 

Una situazione più o meno analoga riguarda la Banda 28 gigahertz, che il governo dovrà riassegnare nel 2029. Questa frequenza è appetita dagli operatori satellitari e parecchio da Starlink, ma in gran parte è occupata dalle aziende telefoniche per le connessioni 5G. Per convivere civilmente nella Banda 28, che agisce a corto raggio, è auspicabile che i gestori si scambino informazioni. Non succede spesso. Infatti Starlink ha già contestato Tim. Per il futuro gli avvocati della multinazionale di Musk si aspettano più attenzioni e trasparenza dalle strutture di controllo e non hanno torto. Così si spiega l’asprezza della lettera che Starlink ha inviato all’Autorità per le comunicazioni proprio per rispondere alla consultazione pubblica sulla Banda 28: «Stupisce che nel documento Agcom (…) menzioni l’esistenza della banda larga satellitare di nuova generazione solo marginalmente». Agcom non si scompone mai e sottolinea il suo ruolo di vigilanza su decisioni che, però, provengono dal governo.

 

Il contratto per le comunicazioni sensibili per gli apparati di intelligence, diplomatici e militari – un patto di cinque anni per 1,5 miliardi di euro – ogni giorno sta per essere firmato, ma ogni giorno viene depotenziato. La divisione di Space X che offre questo servizio per i governi si chiama Starshield. Per ora è in costituzione esclusivamente per gli Usa e procede con documenti classificati. Starlink è un servizio commerciale, non pensato per i governi. Palazzo Chigi ha già chiarito a L’Espresso che le trattative sono per Starlink, non per Starshield. Di conseguenza, siccome Starlink è accessibile ovunque e già diffuso per comunicazioni militari e diplomatiche non riservate, non si capisce perché ci si debba legare a Starlink per cinque anni a 1,5 miliardi di euro. Starkink verrà a salvarci, ma abbiate pazienza. Il “muskometro” spiega che il governo Meloni non ha deciso ancora se schierarsi con Trump e contro l’Europa o fare una settimana di qua e una di là. Forse la seconda.

L'edicola

In quegli ospedali, il tunnel del dolore di bambini e famiglie

Viaggio nell'oncologia pediatrica, dove la sanità mostra i divari più stridenti su cure e assistenza