Ai dipendenti del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, in due anni ne sono stati assegnati ben 10.396, quasi 12 al giorno. Superano i 7,5 milioni i via libera alle opere

Mit, collaudi e arbitrati a peso d’oro

La pioggerella si abbatte da tempo su uomini e donne nel palazzone che a Roma dall’angolo di via Nomentana guarda porta Pia, l’ultimo regalo di Michelangelo Buonarroti alla città dei papi. Una pioggerella di collaudi e altri incarichi rispettabilmente retribuiti, dorata e incessante. Da qualche anno, poi, sempre più fitta. Dal primo gennaio 2023 a oggi, ai dipendenti del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti ne sono stati assegnati ben 10.396, in media quasi 12 al giorno, con una progressione ulteriore nei primi cinque mesi del 2025, quando la media quotidiana è salita a 15. Contribuisce una nuova invenzione spuntata all’epoca del Covid e poi trasformata in regola fissa dal codice degli appalti targato Matteo Salvini, della quale L’Espresso si è già ripetutamente occupato. È il Collegio consultivo tecnico, diabolica evoluzione dell’arbitrato. Così, per qualche dirigente del ministero, la pioggerella si è trasformata in un’alluvione.

 

Nel 2022 il Comune di Milano indica l’ingegner Massimo Sessa, presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, a capo del Collegio consultivo tecnico per un appalto della metro M4: 400mila euro di compenso. Sempre nel 2022 Sessa riceve l’incarico di commissario per un’opera nel porto di Livorno: 200mila euro. L’anno seguente tocca a Rete ferroviaria italiana, società infrastrutturale delle Ferrovie dello Stato, affidargli il Collegio consultivo tecnico per l’appalto del passante dell’alta velocità di Firenze: 400mila euro. E nel 2024, oltre alla presidenza di un Collegio consultivo tecnico decisamente più modesto (15mila euro) dell’Aci per l’autodromo di Monza, gli vengono assegnati due collaudi. Il primo per la linea tramviaria di Bologna, compenso dichiarato di un euro; il secondo per il nuovo Campus mind nell’ex area Expo di Milano, e qui il compenso dichiarato è ben diverso: 357mila euro. Totale per questi incarichi, dal 2022 al 2024, un milione 372mila euro.

 

A scanso di equivoci va precisato che sono dati pubblici. Si trovano nella “Piattaforma Perla Pa – Anagrafe dei consulenti e collaboratori”, accessibile a tutti i cittadini. È stata istituita in base al comma 2, articolo 9 bis, del decreto legislativo 33 del 2013. Ovvero la normativa che, sia pure con alcuni difetti, ha stabilito regole basilari per la trasparenza della politica e della pubblica amministrazione.

 

Da quella banca dati pubblica si ricava, per fare un altro esempio, che all’ingegner Pietro Baratono, componente del Consiglio superiore presieduto dal suo collega Sessa, dal 2021 al 2024 sono stati autorizzati sette incarichi esterni: quattro come componente di Collegi consultivi tecnici (dal porto di Ravenna a quello di Genova e Cagliari, fino a un appalto a via Nazionale, a Roma) per un compenso totale stimato di 451.084 euro e 34 centesimi, e tre collaudi per un ammontare di 134.470 euro. Totale, più di 585mila euro. Una bella cifra. Ma è pur sempre meno della metà di quella prevista per gli incarichi del suo presidente. «Ubi maior…», potrebbe commentare qualche irriverente.

 

La verità è che la pioggerella di cui sopra, più o meno intensamente bagna davvero tutti o quasi quelli che contano al ministero delle Infrastrutture. Qualche altro caso? Il capo dipartimento degli Affari generali, Lorenzo Quinzi, è presidente di due Collegi consultivi tecnici, per 165.457 euro. Idem il capo dipartimento delle Infrastrutture e delle Reti di trasporto Enrico Maria Pujia, per 133.867 euro. E la presidenza di un collegio consultivo tecnico, dall’Acea, non si nega neppure al vice capo di gabinetto, avvocato Pasquale Pucciarello. Compenso indicato: un euro. Come dire che non se ne conosce l’entità.

 

Intendiamoci, è tutto perfettamente legale. I collegi consultivi sono incarichi, l’abbiamo specificato, previsti dal codice degli appalti. Quanto ai collaudi, i dirigenti del ministero li hanno sempre fatti, da tempo immemore. Il problema è che sono una marea, e anche i soldi che circolano sono una marea. Per molti collaudi non si conosce neppure il compenso, visto che pure qui viene formalmente indicato in «1 €» o addirittura «0 €». Ma sommando esclusivamente i 140 collaudi che figurano in banca dati dal 2023 con una cifra vera dichiarata accanto e superiore ai 10mila euro, si arriva a 7 milioni 593.352 euro. Mica male.

 

Colpisce la distribuzione dei numerosi incarichi di collaudo sulla rete di Autostrade per l’Italia: ripartiti fra una dozzina di dipendenti del ministero, per un totale di quasi un milione di euro. E poi l’Acea (780mila euro). E il pulviscolo di collaudi per il Mose (300mila euro e spicci), che ancora annaffia il ministero. E le concessionarie autostradali, le autorità portuali, l’Enel, i Comuni, le università, le municipalizzate di mezza Italia… Spuntano collaudi di ogni tipo, c’è perfino chi è incaricato di collaudare una fornitura di materiale rotabile (30.515 euro).

 

Tutto perfettamente legale, dicevamo. C’è solo un piccolo particolare tecnico, se vogliamo. Ovvero la legge che impone a ogni dipendente pubblico di non superare una retribuzione parametrata a quella del presidente della Repubblica. Parametro fissato oggi a 253mila euro lordi annui. Per quanto qualcuno possa ritenere assurdo e anacronistico porre un limite simile al compenso anche dei più alti burocrati pubblici, le norme in vigore specificano che il tetto s’intende onnicomprensivo. Anche i proventi degli incarichi, quindi, devono rientrare nei 253mila euro lordi.

 

Ma in Italia, com’è noto, le leggi si possono sempre interpretare. La sorpresa, anzi, è per quelle che si applicano senza venir prima interpretate. E quando nemmeno l’interpretazione regge, ecco che si forzano. Nella magistratura amministrativa, che di incarichi extragiudiziali fa incetta, è in auge l’interpretazione secondo cui i compensi versati dai privati, per esempio per i Collegi consultivi tecnici, non devono essere ricompresi nel tetto. Ma sono da considerarsi alla stregua dei privati anche le società di capitali pubbliche, come Anas e Ferrovie? Boh… La diatriba, a quanto pare, tiene ancora banco.

 

Poi c’è la questione dei controlli. Chi e come verifica che il tetto non venga superato? Nessuno, ovvio. Per tagliare la testa al toro basterebbe imporre la pubblicazione delle dichiarazioni fiscali dei dirigenti pubblici. Però non si può fare: hanno stabilito che c’è un serio problema di privacy.

 

A ben vedere, tuttavia, c’è anche un altro problema. Molto più serio del precedente. I collaudi delle opere pubbliche devono farli gli ingegneri, certo. E chi, se no? Anche se è ormai abitudine distribuire incarichi per i cosiddetti collaudi «amministrativi», cioè si paga un collaudatore per verificare che le carte dell’appalto siano tutte a posto.

 

Ma perché per fare i collaudi debbano essere incaricati gli ingegneri del ministero delle Infrastrutture, e pure i suoi dirigenti non ingegneri, proprio non si capisce. Il ministero non deve forse vigilare sulla corretta esecuzione delle opere pubbliche e sull’ordinata gestione delle concessioni autostradali? Che i suoi dipendenti e dirigenti vengano retribuiti a parte per incarichi di collaudo dai soggetti vigilati è una circostanza in aperto contrasto con l’istituzione della quale fanno parte. Per non parlare degli ormai famosi Collegi consultivi tecnici. Rientra tutto nel campo del conflitto d’interessi, assai esteso nel nostro Paese. Ne abbiamo scoperto l’esistenza trent’anni or sono, senza mai avere avuto in tutto questo tempo nemmeno il coraggio di guardarlo in faccia. 

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