Al Nazareno cominciano a studiare le sue mosse, un po’ preoccupati e sospettosi. Sotto i riflettori del quartier generale del Pd c’è Paolo Gentiloni: per la prima volta da quando ha lasciato Bruxelles l’ex commissario è entrato in una polemica strettamente di politica interna e proprio quella referendaria, a pochi giorni dal voto dell’8 e del 9 giugno. Lo ha fatto chiamando in causa il proprio partito, quello di cui è uno dei fondatori, definendo la scelta del “sì” sul Jobs Act «una resa dei conti nel nostro album di famiglia».
Prima non era andato oltre i temi mondiali ed europei, da Trump alla difesa comune del Vecchio Continente, e anche qui in controtendenza rispetto a Elly Schlein, difendendo il piano del riarmo presentato da Ursula Von der Leyen. Ma negli ultimi giorni della campagna referendaria – intervistato da La Stampa – ha deciso di prendere posizione a favore del “no” sui quesiti riguardanti il lavoro, non solo in coerenza con la piena condivisione del Jobs Act quando era ministro degli Esteri del governo Renzi, ma evidentemente anche per sostenere con la propria autorevolezza la posizione della minoranza riformista del Pd che dopo aver mal digerito l’adesione ai referendum di Landini si è pubblicamente dissociata dalle decisioni prese, annunciando che non avrebbe votato i due quesiti.
Ora – davanti all’esito fallimentare – i riformisti accusano Schlein: «Un regalo a Meloni» con una campagna «identitaria», come ha commentato Pina Picierno. Perciò si guarda ancora di più all’ex commissario europeo, sperando in un suo crescente coinvolgimento. «Gentiloni sta inviando messaggi precisi, diventando un punto di riferimento» ci dice, soddisfatto, il senatore Alessandro Alfieri, coordinatore nazionale dell’area riformista. Se dovesse realizzarsi una mutazione genetica del partito, fino a trasformarlo quasi in una forza di sinistra radicale solo proiettata verso un’alleanza competitiva con i Cinque Stelle – a loro volta sempre più radicalizzati – e con Avs, i contraccolpi interni non mancheranno. E Gentiloni potrebbe trovare lo spazio per rivendicare la ragion d’essere del Pd come è nato quello veltroniano che ha unito gli ex Ds e l’ex Margherita all’insegna di un partito plurale.
Colui che è stato l’ultimo presidente del Consiglio espresso dal Pd dispensa anche consigli ad alcuni esponenti della frastagliata area centrista, nella convinzione che le tre forze politiche liberal-democratiche – Italia Viva, Azione e +Europa – debbano unificarsi o federarsi. Se lo facessero, aiuterebbero il Pd a non sbilanciare la futura alleanza di centrosinistra dalla parte dei Cinque Stelle e di Alleanza Verdi Sinistra. Neppure la manifestazione che Renzi e Calenda hanno organizzato insieme a Milano il 6 giugno per Gaza, in anticipo e in alternativa a quella del giorno dopo a Roma (Schlein-Conte-Fratoianni), è stata tale da segnare un’inversione di tendenza rispetto ai personalismi. Era scontato che la piazza milanese non servisse a porre le basi di «nuove alleanze» insieme con i riformisti del Pd presenti, come ha subito messo in chiaro Renzi. Ma non è servita neppure a mettere pace fra i due ex leader del Terzo Polo.
«Il federatore delle forze liberal-democratiche va trovato necessariamente all’esterno dei partiti, che non sono ormai in grado di autofederarsi», ragiona Benedetto Della Vedova, esponente di +Europa. I nomi che girano sono sempre i soliti, senza novità. Quello più accreditato resta il sindaco di Milano Giuseppe Sala, ancora impegnato non senza difficoltà sul versante amministrativo anche in vista delle Olimpiadi 2026. Chi spera che possa alla fine rompere gli indugi e prendere un’iniziativa che lo ponga alla guida di una federazione aperta alla società civile prevede che solo fra la fine dell’anno e l’inizio del 2026 possa avvenire qualcosa di nuovo, forse anche dopo questa estate. Quanto all’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini, con una fisionomia politico-culturale più legata al filone del cattolicesimo democratico e sociale, va registrata solo una sua mappatura del territorio con la presentazione, in giro per l’Italia, del libro-manifesto “Più uno. La politica dell’uguaglianza”.
Poi c’è l’altra prospettiva, che però al momento rasenta la fantapolitica. Una scissione del Pd con la fuoruscita della componente riformista e la sua fusione con Italia Viva, Azione e +Europa. Sulla carta, il più indicato a guidare questa nuova alleanza sarebbe proprio Gentiloni. Ma l’operazione – una Margherita 2.0 – rischierebbe tempi lunghi, addirittura dopo le prossime elezioni politiche davanti a una nuova eventuale sconfitta elettorale del Pd e del centrosinistra, a meno che la “resa dei conti” interna conduca prima a una insanabile frattura.
Per ora c’è solo il piccolo laboratorio politico di Milano: il Circolo Matteotti che vede l’adesione dei riformisti Pd e dell’area centrista. «Ma non è l’embrione di un nuovo partito», frena non a caso la deputata dem Lia Quartapelle, molto attiva nell’iniziativa. Intanto si rafforza una base comune sui problemi del Paese. Il prossimo convegno del Circolo sarà non a caso sul lavoro. Ora che il Jobs Act del governo Renzi è rimasto intatto.