Altro che Meloni, altro che Fratelli d’Italia. Sul terzo mandato ai governatori la vera mina vagante è Matteo Salvini, che da settimane gioca su più tavoli ma intanto frena tutto. E il problema, stavolta, non è fuori dalla Lega, è dentro. Perché tra i governatori del Carroccio cresce il nervosismo: Zaia e Fedriga non la dicono tutta, ma la faccia ce l’hanno tirata come chi ha appena perso un’elezione. Il tema è chiaro: la possibilità di concedere il terzo mandato ai presidenti di Regione, un’apertura su cui Giorgia Meloni ha lasciato spiragli, almeno formalmente. Ma Salvini? Niente. Silenzio. Giri di parole. Poi il classico rinvio. Ufficialmente, «serve un confronto con i territori». Tradotto: non si muove foglia che Matteo non voglia. E il sospetto che serpeggia tra i leghisti di governo è che Salvini, più che preoccuparsi della coerenza istituzionale, teme di rafforzare chi nel partito ha più consenso di lui. Leggi: Luca Zaia. Già, perché il governatore veneto resta il leghista più amato d’Italia, ma anche il più autonomo. E un suo terzo mandato – con l’appoggio trasversale di mezza Regione – rischierebbe di farlo diventare un contendente interno scomodo. Molto scomodo. Troppo.

 

Così Salvini, stretto tra una base che chiede di tornare “padroni a casa nostra” e una segreteria sempre più centralista, sceglie l’unica strada che conosce bene: non decidere. Un metodo collaudato, che nel frattempo spacca il partito tra chi vuole contare nei territori e chi preferisce aspettare l’ordine dall’alto. Il problema? È che la Lega si sta desertificando. I governatori sono stufi, i sindaci si smarcano, e le elezioni regionali si avvicinano. Giorgia Meloni osserva, forse sperando che la Lega si auto-rottami da sola. Perché mentre Salvini temporeggia, FdI ha già pronto un piano B: mettere il cappello anche sui territori storicamente “leghisti”, e prendere tutto. A cominciare dal Veneto.

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Altro che vittoria. Dopo il pasticcio dei referendum – venduti come un trionfo alla voce “abbiamo retto!” – Elly Schlein si lecca le ferite in silenzio. Ma non troppo. Perché nel Pd il silenzio è un lusso che non ci si può permettere: tra correnti, ex delfini arrabbiati e riformisti con il coltello (politico) tra i denti, l’aria è da resa dei conti. All’assemblea nazionale di luglio si prepara il redde rationem, almeno a parole. I riformisti sono stanchi di fare tappezzeria mentre la segretaria guida il partito come una Tesla in modalità autopilot: senza freni e senza consultazioni. La linea? La decide lei con pochi fedelissimi. I contenuti? Affidati a una manciata di “esperti”. Nel frattempo, si vocifera di un smarcamento strategico dalla Cgil di Landini. Troppo peso, troppi legami, troppa sinistra-sinistra per un partito che vorrebbe fingersi moderno ma inciampa sulle sue stesse assemblee. Il taglio del cordone ombelicale con il sindacato potrebbe servire a dare respiro ai centristi (sempre più nervosi), ma rischia di creare una frattura insanabile con la base storica. E mentre al Nazareno si lavora sotto traccia al piano per un eventuale congresso straordinario all’inizio del 2026, tra i dem il malcontento cresce. «Guida il partito come Renzi», sussurrano nei corridoi. Solo che lui, almeno, sedeva a Palazzo Chigi. Lei invece è barricata in via Sant’Andrea delle Fratte, dove tra piante finte e caffè amari si cerca disperatamente un’idea che non sia lo slogan del giorno. Il rischio? Che il Pd si trovi, ancora una volta, impantanato in una guerra civile interna mentre il centrodestra governa, l’estrema destra mena, e la sinistra vera – quella dei temi concreti – resta a guardare.

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