Politica
14 luglio, 2025Articoli correlati
In media un decreto ogni 9 giorni, 10 ore e 33 minuti. Il Parlamento ha approvato 223 leggi, ma quasi due terzi sono emanazione diretta dell'esecutivo in carica
Non riusciva, Giorgia Meloni, a celare l’indignazione per il trattamento riservato alle Camere dal governo di Mario Draghi: «Il governo procede solo per decreti legge e fiducia. Il Parlamento non ha neppure il tempo di studiare i provvedimenti. Allora, che è questo sistema?». Diceva questo a dicembre del 2021, pochi mesi prima di prendere a Palazzo Chigi il posto di Draghi. Per seguire, alla testa di un governo politico, le orme del governo tecnico dell’ex presidente della Banca centrale europea. E riservare identico trattamento a Camera e Senato. Riuscendo, per essere ancora più precisi, addirittura a migliorarne di un pelo la performance.
Nell’arco di 973 giorni Giorgia Meloni ha sfornato la bellezza di 103 decreti legge, cioè in media un decreto d’urgenza ogni 9 giorni, 10 ore e 33 minuti. Contro uno ogni 9 giorni e 14 ore del governo Draghi. Il ritmo meloniano è invece assolutamente identico a quello del secondo gabinetto di Giuseppe Conte. Che però, a differenza del governo Meloni e al pari dell’esecutivo Draghi, ha avuto a che fare con altre rogne. Tipo l’emergenza della pandemia, per intenderci.
Eppure Il 27 maggio 2024 è il sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano che pronuncia una sentenza di completa assoluzione perché il fatto non sussiste: «Per numero di decreti legge siamo in linea con i due governi precedenti». Bel risultato. Il governo di Giorgia Meloni detiene il record assoluto della decretazione d’urgenza degli ultimi vent’anni.
Le conseguenze sono quelle ricordate su questo giornale la scorsa settimana da Susanna Turco. Il ruolo del Parlamento è ormai ridotto all’esercizio di una pura funzione notarile, quella di convertire in legge i decreti dell’esecutivo. La stragrande maggioranza dell’attività è dedicata a questo, con una preoccupante forzatura delle regole costituzionali che affidano il potere legislativo ai rappresentanti degli elettori riservando al governo soltanto la prerogativa di procedere per decreto in casi limitati e urgenti. Peccato che ormai la regola sia l’esatto contrario.
Da quando si è insediato, il governo Meloni il Parlamento ha approvato 223 leggi. Ben 87 sono leggi di conversione di decreti governativi. Poi ci sono 37 ratifiche di accordi internazionali, anch’esse di provenienza governativa. Quindi le leggi finanziarie (tre) e le leggi annuali sulla concorrenza (tre), più le leggi (11) che delegano al governo di legiferare su determinate materie. E siamo a 141 su 223. Cioè quasi due terzi di tutte le leggi approvate dal parlamento dall’ottobre 2022 sono emanazione diretta del governo in carica.
Ma non basta, perché gran parte delle altre leggi ordinarie sono frutto di proposte governative. Dalla semplificazione dei controlli sanitari per il Giubileo alle modifiche allo statuto della Fondazione dell’Ordine costantiniano San Giorgio di Parma. Dal riordino del sistema tributario alla istituzione della filiera della formazione tecnologico-professionale. Passando per le misure in favore del terzo settore, le riforme della giustizia, il Museo di Roma...
Insomma, ai nostri rappresentanti non resta che concentrarsi per regalare al Paese provvedimenti storici, come la promozione della mototerapia e l’attribuzione del fondamentale riconoscimento di sacrario militare ai resti del sommergibile Scirè affondato dagli inglesi al largo di Haifa nel 1942. O ancora la concessione di provvidenze all’associazione Arena Sferisterio organizzatrice del Macerata Opera festival. Per non parlare della doverosa celebrazione del centenario della fondazione della città di Latina, cara a Fratelli d’Italia: e già che non si è pensato di ripristinare per legge il nome originario, Littoria, che le aveva dato Benito Mussolini.
Fa quindi da corollario all’impegnativo lavoro dei nostri parlamentari una contenuta raffica di leggine per istituire giornate nazionali: da quella per gli abiti storici alla ricorrenza delle periferie urbane. Fino alla celebrazione annuale, stabilita con legge della repubblica, della prevenzione veterinaria. E mentre parlamentari dell’opposizione e della maggioranza inondano gli archivi del Parlamento di atti che spesso avevano l’unico scopo di marcare un territorio ideologico (indimenticabile la proposta di legge del leghista a trazione integrale Claudio Borghi per eliminare l’obbligo di esporre la bandiera dell’Unione europea in tutti gli uffici pubblici), Meloni e i suoi badavano al sodo.
Va spiegato che la brutta abitudine di decreti legge a raffica è cominciata un bel pezzo addietro. La verità è che il dettato costituzionale per cui il governo può ricorrere a quello strumento unicamente per motivi di urgenza è stato rispettato, più o meno, soltanto nei primi due decenni della storia repubblicana. Nel 1948 il governo di Alcide De Gasperi approvò appena quattro decreti legge. E due anni dopo si limitò a un paio. Ma sarebbe stato un record positivo mai più battuto. Nel 1967 il terzo governo di Aldo Moro ruppe gli argini: 37 decreti legge in dodici mesi, a un ritmo quasi meloniano. Poi arrivarono i terribili anni Settanta, e nel 1976 Moro prima e Giulio Andreotti subito dopo ne collezionarono addirittura 68. Sembrava l’acme della crisi per la democrazia parlamentare: ma ci pensò Bettino Craxi, nel 1987, a dimostrare che si poteva andare ben oltre, confezionando 163 decreti legge in un solo anno. La prima Repubblica, del resto, era agli sgoccioli.
Si sarebbe capito ben presto, perché all’inizio degli anni Novanta i decreti legge venivano giù come la grandine. Furono 139 nel 1992, 259 l’anno seguente, 327 nel 1994, 294 nel 1995. Per toccare il massimo nel 1996: trecentosessantadue decreti legge in trecentosessantacinque giorni. C’è da dire che molti di quei decreti si sfracellavano in Parlamento, dove non venivano convertiti in legge. Così dovevano essere reiterati: ce ne fu uno che fu riproposto per ben tredici vote, con il risultato che le norme contente in esso, mai uguali perché ogni volta si aggiungeva qualcosa e qualcos’altro si toglieva, ebbero forza di legge per più di due anni senza mai essere ratificate dal Parlamento.
Una lezione che deve aver ingolosito i successori della prima Repubblica. Il presidente del consiglio che detiene il primato assoluto di decreti legge è Lamberto Dini: 452 decreti in 485 giorni di governo. Seguito da Carlo Azeglio Ciampi, con 332. Quindi da Giuliano Amato, nel suo primo governo, con 271. Ma i loro erano tutti governi d’emergenza. Non come quello di Romano Prodi, anche qui il suo primo, che licenziò 259 decreti. Oppure quello di Silvio Berlusconi, che fra il 2001 e il 2006 si accontentò (si fa per dire) di approvarne 217.
Ma i decreti legge non sono stati l’unico mezzo con il quale il potere legislativo è stato pian piano tolto al Parlamento. L’altro, e forse non meno importante, è quello dei decreti attuativi, cioè dei provvedimenti ministeriali che servono ad attuare le leggi. Li fanno materialmente i burocrati e senza quelle norme scritte nelle stanze dei ministeri le leggi restano lettera morta. Ci sono casi di leggi che in trent’anni non sono mai entrate in vigore perché mancano le norme attuative. Il governo Meloni si vanta adesso di aver sensibilmente aumentato il numero delle leggi “autoapplicative”, cioè che non hanno bisogno di decreti attuativi per funzionare. Tuttavia i numeri restano impietosi.
Sapete quanti decreti attuativi sarebbero necessari per far funzionare tutte le leggi approvate dall’inizio di questa legislatura? Più di mille. Esattamente, 1053. Ebbene, i dati ufficiali dicono che il governo Meloni ne deve ancora fare 432. Più 71 ereditati dal governo di Mario Draghi. Più 37 dei due governi di Giuseppe Conte. La somma fa 540. E non è tutto, perché la banca dati si ferma appunto al primo governo Conte, cioè al 2018. Ma si sa per certo che ci sono ancora provvedimenti dei governi di Paolo Gentiloni e Matteo Renzi che non sono mai stati attuati per- ché mancano i decreti ministeriali.
Ce n’è uno che risale a nove anni fa. L’aveva fatto la ministra della Pubblica amministrazione Marianna Madia, e stabiliva che le nomine nelle società e negli enti pubblici dovevano rispettare precisi criteri di competenza e onorabilità. Quei criteri dovevano essere fissati, manco a dirlo, da un decreto attuativo che però non è mai stato emanato dai sette governi che si sono succeduti da allora. Comprenderne la ragione è semplicissimo: basta scorrere, rabbrividendo, i nomi di chi viene piazzato ai vertici di enti di Stato e aziende pubbliche.
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