L’ultima scoperta italiana è che pure la trasparenza, quando riguarda chi sta al governo, tiene famiglia. E ci tiene così tanto, alla famiglia, da farsi di nebbia con il beneplacito di una legge insensata di 12 anni fa. Graziando tutti i familiari, da quelli di Giorgia Meloni fino all’ultimo sottosegretario. Qui una premessa è d’obbligo. Certo è decisamente troppo, visto il profilo dell’attuale classe dirigente, immaginare che i nostri governanti possano imitare Vittorio Emanuele Orlando, che fu presidente del Consiglio dopo la disfatta di Caporetto. Si narra che l’avvocato Orlando, una volta lasciati gli incarichi pubblici e tornato alla professione forense, avvertì i suoi clienti che non avrebbe più patrocinato cause legali contro lo Stato. Infatti non l’ha imitato nessuno.
Ma senza arrivare a tanto, assicurarsi che l’esercizio del potere non produca vantaggi personali a chi lo esercita è il minimo sindacale. Ovviamente, in una democrazia sana e matura. L’antidoto migliore, già sperimentato in quelle più avanzate, è ovunque la trasparenza. La pensavano così anche nel governo di Mario Monti, autore di una innovazione clamorosa. È l’obbligo per chi ha responsabilità di governo, dallo Stato ai più piccoli comuni, di rendere pubblici i compensi ma anche (e soprattutto) la propria situazione patrimoniale: immobili, azioni, automobili, barche, dichiarazioni fiscali… Questo prevede il decreto legislativo 33, sfornato con la firma del ministro della Pubblica amministrazione Filippo Patroni Griffi il 13 marzo del 2013, tre settimane dopo le elezioni politiche che non avevano premiato come i suoi speravano la lista Monti, sembrava arrivare da un altro Pianeta. Va detto che per i parlamentari l’obbligo di comunicare alla presidenza delle Camere i propri dati patrimoniali (allora non c’era Internet) già esisteva dal 1982. Però si disse che ministri e sottosegretari, da quel momento, sarebbero stati costretti a entrare in una casa di vetro. Almeno così sembrava.
Ma il vetro può essere anche opaco, e non far vedere bene quello che c’è dietro. Ed è esattamente ciò che accade da 12 anni a questa parte. Facciamo il caso, nemmeno troppo remoto, di un ministro che da privato cittadino abbia un’attività imprenditoriale o professionale. E che magari, assumendo l’incarico pubblico, decida di liberarsi di un possibile conflitto d’interessi cedendo l’attività a un figlio, oppure al consorte. Per non dire, addirittura, a un genitore. Come si possono garantire i cittadini e le istituzioni che l’incarico pubblico non produca vantaggi ai familiari del ministro? È semplicissimo: estendendo l’obbligo di pubblicare le dichiarazioni patrimoniali anche a loro. Proprio quello che prevede il famoso decreto legislativo 33 del 2013. L’articolo 14, comma 1, lettera f, stabilisce che debbano essere rese pubbliche, oltre a quelle del titolare della carica di governo, anche le situazioni patrimoniali del «coniuge non separato» nonché dei «parenti entro il secondo grado». Genitori, figli, fratelli, sorelle e nipoti. Tutto risolto, allora? Macché. Nell’articolo 14, comma 1, lettera f, spunta una pillola avvelenata. Cinque parole: «Ove gli stessi vi consentano». Cioè, per pubblicare i dati patrimoniali dei parenti entro il secondo grado di ministri e sottosegretari ci vuole il loro consenso. La legge dice che va fatto ma poi aggiunge che si può anche non fare. Quindi è inutile.
Ebbene, cari lettori, sapete quante sono le dichiarazioni patrimoniali dei parenti degli attuali 63 componenti del governo Meloni pubblicate sui siti di palazzo Chigi e dei ministeri? Zero virgola zero. Significa che nessuno, ma proprio nessuno, ha dato il consenso alla pubblicazione. E siccome il decreto 33, nell’estrema ipocrisia con cui è stato partorito questo finto obbligo, prescrive che «viene in ogni caso data evidenza del mancato consenso», c’è veramente da sbizzarrirsi.
Veniamo così a sapere che «madre, sorella e figlia (minorenne)» di Giorgia Meloni hanno negato «com’è loro facoltà» il consenso. E passi il fatto che la sorella della premier, Arianna Meloni, sia il suo potentissimo braccio destro al partito. Che il consenso l’avrebbe negato, sembra di capire, due volte: la prima come sorella della premier e la seconda come «coniuge» (così c’è scritto nella dichiarazione) del ministro della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida. E qui corre l’obbligo di segnalare che il decreto 33 parla di coniugi non separati, escludendo così anche le coppie di fatto. Ma che proprio i familiari della comandante in capo del governo si avvalgano (la figlia ovviamente non c’entra nulla) della «facoltà» di negare il consenso, diciamo la verità, non è molto carino.
A dire la verità non sarebbe carino per nessuno. Per alcune situazioni, però, forse lo è ancora meno. Il ministro delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso mette agli atti che i suoi parenti di primo e secondo grado non hanno consentito alla pubblicazione. Parente di primo grado del ministro è suo figlio Pietro, al quale il ministro ha trasferito la sua società di consulenza Italy world services, specializzata nell’assistenza delle imprese con attività all’estero. Un campo che rientra nella sfera d’azione istituzionale del ministero.
Così la ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone non ha avuto difficoltà a dichiarare per iscritto che «il mio coniuge e i miei parenti entro il secondo grado non hanno consentito» a pubblicare i propri dati, come previsto dalla legge. Piccolo particolare, il coniuge non è soltanto il presidente dei Consulenti del lavoro, ma ha posseduto con Calderone una società di consulenza nel settore di competenza del ministero fino a quando la moglie non ha avuto l’incarico di governo: successivamente ne ha rilevato la quota del 50 per cento e ora risulta l’unico proprietario della Calderone & De Luca srl. Gli affari vanno a gonfie vele.
Così il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Della Vedove, il quale ha specificato che oltre al coniuge anche «padre, madre e sorella hanno negato il consenso». Per inciso, con la sorella Francesca che è anche sindaca di Rosazza, in provincia di Biella, ha costituito dopo aver assunto l’incarico governativo la “Delmastro-Vasta srl – società tra avvocati”.
Così il sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato, farmacista. Nella pagina di “amministrazione trasparente” del ministero non si trova la dichiarazione del negato consenso dei familiari, ma non ci sono nemmeno i dati patrimoniali dei fratelli Nicola e Rocco, che gestiscono la farmacia di famiglia. Al ministero il sottosegretario Gemmato ha proprio la delega sui farmaci.
Si potrebbe andare avanti per pagine, ma non senza spiegare che lo spunto per questo articolo si deve all’unico componente del governo che ha avuto l’ardire (perché tale si dev’essere trattato) di pubblicare la situazione patrimoniale della moglie e delle due figlie: una delle quali, Alessandra, fa lo stesso mestiere del padre in un altro studio legale. Parliamo del vice ministro dell’Economia Maurizio Leo. Che all’atto di assumere l’incarico ha omaggiato la trasparenza, pubblicando i dati dei parenti più stretti. Manco a dirlo, è durato soltanto un anno. Dal 2023 anche «il sottoscritto On. Prof. Maurizio Leo attesta che i figli e i parenti entro il secondo grado non acconsentono alla pubblicazione dei dati». E tutti, senza la mosca bianca, dormono sonni più tranquilli.