Imprenditori che corrono a fare accordi con i boss e vuoti sociali che i clan colmano: questo è terreno fertile per Cosa Nostra, dice la procuratrice generale di Palermo

Alle mafie va sottratto il consenso: colloquio con Lia Sava

Dal 2022 Lia Sava è procuratrice generale di Palermo: ha indagato sulle stragi del 1992 prima da procuratrice aggiunta a Caltanissetta e poi da procuratrice generale.

Cos’è la mafia oggi, cos’è cambiato dopo le stragi?

«La mafia, intesa come Cosa Nostra, è viva e vegeta. Sfatiamo la narrativa che la vuole sconfitta. Certo, dopo le stragi la reazione dello Stato è stata molto forte, sono stati sgominati i Corleonesi, grazie anche al sostanzioso apporto dei collaboratori di giustizia. Ma l’organizzazione non è certo finita. Dopo le stragi è iniziata la cosiddetta strategia della sommersione. Si ricorre ai fatti di sangue in maniera chirurgica, cioè solo quando ve ne sia assoluto bisogno. Cosa Nostra è diventata progressivamente fluida. Oggi sfrutta abilmente le nuove tecnologie, la moneta virtuale, il dark webe gli strumenti dell’intelligenza artificiale per realizzare affari e, in primo luogo, il traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Come si desume da uno studio dell’Università di Palermo di qualche anno fa, nel solo bacino del Mediterraneo operano circa 3.600 organizzazioni criminali che interagiscono fra loro per realizzare traffici illeciti. Occorre investire in strumenti tecnologici sempre più sofisticati ed evoluti per contrastare questa Cosa Nostra. Investimenti nelle nuove tecnologie e cooperazione internazionale sono, a mio parere, come indicato in diversi interventi dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, le prospettive da tenere ben a mente per il contrasto al crimine organizzato attuale e degli anni a venire. Senza dimenticare, peraltro, che Cosa Nostra prosegue quelle attività funzionali al controllo serrato del territorio: pensiamo, in prima battuta, al settore delle estorsioni».

Cosa avete riscontrato nel corso dell’attività di indagine?

«Dal tenore delle ultime e complesse operazioni portate avanti dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, siamo ancora in presenza della classica situazione in cui l’imprenditore subisce l’intimidazione e quindi paga il pizzo all’emissario di zona, ma monitoriamo anche casi più inquietanti. A volte sono gli stessi esercenti di attività economiche che, prima di avviare un’attività imprenditoriale, contattano il referente di Cosa Nostra per mettersi a posto. Quindi il pizzo diviene una sorta “di costo di impresa”. Inoltre, prosegue l’interesse di Cosa Nostra per il settore degli appalti dove si riscontra il sentore di infiltrazioni criminali nel settore amministrativo realizzato attraverso funzionari compiacenti. Peraltro, il contrasto agli appetiti di Cosa Nostra verso i fondi del Pnrr è oggetto della più scrupolosa attenzione investigativa degli uffici requirenti del Distretto di Palermo. Ma la cosa che mi preoccupa di più è che c’è una grande “voglia di mafia” in alcune fette della società, perché la povertà, la crisi di valori, la carenza di strutture pubbliche atte a supportare chi è in difficoltà porta i soggetti più fragili a essere tentati ad accettare l’offerta deviante del crimine organizzato. Questa situazione genera, in qualche modo, una sorta di “welfare mafioso” che inevitabilmente incrementa consenso».

Dopo le stragi c’è stato uno scatto di orgoglio collettivo a Palermo, iniziato con il movimento dei lenzuoli bianchi. Lei ha detto che questo scatto si è un po’ smarrito. Perché, quali sono le responsabilità?

«Lo scatto si è affievolito per due fattori. Alcuni hanno strumentalizzato il “sacro” che c’è nell’impegno antimafia per vantaggi personali e questo ha causato una ferita profonda e una grande delusione, specie nei più giovani. La magistratura, pian piano, ha preso atto di ciò che stava accadendo ed è intervenuta facendo indagini e processi, ma qualcosa è, comunque, mutato, in uno con i cambiamenti sociali intervenuti negli ultimi anni. La pandemia, le guerre, l’impoverimento conseguente di tanti – non solo in Italia, ma nel panorama complessivo non solo europeo – hanno creato disorientamento e sconforto. La gente, soprattutto nei quartieri poveri delle città, ha fame e ha bisogno di aiuto e si lega a chi quell’aiuto glielo fornisce. In uno dei quartieri più disagiati di Palermo, nel corso di un’intercettazione effettuata con videoriprese in epoca Covid, abbiamo constatato che, mentre gli aiuti pubblici e della Caritas tardavano ad arrivare, erano gli esponenti di Cosa Nostra a portare i viveri alle famiglie più povere. Ebbene, questa distorsione crea consenso verso le organizzazioni mafiose e indebolisce il contrasto al crimine organizzato. Qualche tempo fa, in una scuola di Palermo in un quartiere difficile, nel corso di un incontro con gli studenti, ho ribadito l’importanza – anche etica – di non accettare l’offerta deviante del crimine organizzato. Al termine del confronto, in disparte, si è avvicinato un ragazzino che mi ha detto: “Lei parla bene, però se mio padre è in carcere e qualcuno non ci aiuta mia madre deve prostituirsi e io non voglio mia madre sul marciapiede”. Questo non riguarda solo Palermo o la Sicilia o Cosa Nostra, ma investe ormai il villaggio globale».

Manca ancora una verità piena sulle stragi del 1992. Sono stati individuati gli autori materiali e i mandanti mafiosi ma mancano i possibili concorrenti esterni. Perché è così difficile arrivare alla verità?

«Serve avere fiducia nelle possibilità che ancora ci sono per mettere insieme i pezzi mancanti. Il tempo toglie a volte la chiarezza nei ricordi, ma oggi ci sono strumenti tecnici più affinati che potrebbero essere funzionali allo scopo. Penso, ad esempio, a reperti sequestrati all’epoca dei fatti che possono essere analizzati oggi con reagenti ed apparecchiature più sofisticate utili a evidenziare impronte per la comparazione. Penso, altresì, a strumenti che consentono, utilizzando applicazioni realizzate con l’intelligenza artificiale, di “pulire” il suono di vecchie intercettazioni. Inoltre, continuiamo ad auspicare che soggetti che hanno fatto parte del vertice di Cosa Nostra, allo stato detenuti, diano il loro contributo alla verità nelle parti che ancora non sono chiare. Personalmente ho fiducia che si arrivi a fare luce completa su tali eventi, anche grazie all’attività serrata delle Commissioni parlamentari».

Servirebbe anche una disponibilità delle istituzioni nel processare pezzi di se stesse.

«I processi si fanno sui fatti, non su suggestioni. Quindi se qualcuno, che ha vissuto nei più diversi ruoli e ambiti quel periodo storico, ha elementi di prova per una completa ricostruzione degli eventi stragisti dovrebbe fornirli. Non è mai troppo tardi per la verità che spesso ha il passo lento ma quando arriva illumina retrospettivamente tutto. Lo dobbiamo non solo ai parenti dei nostri morti per mano mafiosa ma a questo Paese nel suo complesso».

L’educazione alla legalità è uno dei suoi impegni. Nelle tracce della maturità è stata scelta una frase di Paolo Borsellino. Cosa ne pensa?

«La traccia del tema mi è piaciuta molto. Riassume il centro dell’impegno che noi magistrati, da dopo le stragi, portiamo avanti, andando nelle scuole di tutta Italia. Poche settimane fa sono stata in una scuola elementare di Brancaccio a parlare con i bambini per fargli capire che gli esponenti delle Forze dell’Ordine non sono “sbirri” ma sono punti di riferimento dello Stato e che il magistrato non è il nemico che gli porta via il padre per mandarlo in carcere ma una persone che fa il proprio dovere. E qui mi ricollego al pensiero di Paolo Borsellino che è fondamentale e attuale perché le mafie finiranno, e non soltanto in Sicilia ma ovunque, quando i giovani toglieranno loro il consenso. Per ottenere questo obiettivo servono campi di calcio per giocare, strumenti musicali da proporre ai più piccoli per fargli apprezzare l’armonia, dare ai genitori prospettive di lavoro dignitoso. In questa direzione, ognuno deve fare la propria parte, anche la Chiesa: riapriamo gli oratori come fece padre Puglisi che è stato ucciso perché capì che dare un pallone e una merenda ai bambini toglieva la manovalanza alla potente cosca di Brancaccio. Proprio nella scuola elementare di Brancaccio, della quale ho detto prima, alla fine dell’incontro, un ragazzino, accompagnato da una sua insegnante, con la voce tremante, mi ha chiesto: “Ma io posso fare il giudice anche se mio padre è in carcere? Perché io lo voglio redimere, voglio fare il giudice”. Ecco, proprio questa domanda restituisce il senso del nostro lavoro. E, a ben vedere, il senso del nostro futuro».

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