Politica
13 agosto, 2025La religiosità non è svanita: è stata riformulata. Lontano dai templi, dentro le app. Ma la spiritualità non è riducibile a un algoritmo né programmabile in un’interfaccia
Oxford, inverno 2025. Sotto la cupola affrescata della Sheldonian Theatre – dove la Verità scende sulle Arti e le Scienze per scacciare l’ignoranza – si è svolto un dialogo inatteso. Due figure centrali della cultura digitale contemporanea, Biz Stone (cofondatore di Twitter) ed Evan Sharp (cofondatore di Pinterest), si sono confrontate pubblicamente su un tema che, fino a poco tempo fa, sarebbe sembrato fuori luogo nel cuore pulsante della modernità algoritmica: il sacro. Il titolo dell’evento – Reconnecting with the Sacred in a Technology-Driven World – avrebbe probabilmente fatto sorridere un razionalista del Novecento. Eppure, la sala era gremita di studenti, giovani menti cresciute a pane e cloud, che ascoltavano rapite.
Il sacro non è sparito: ha cambiato forma, si è nascosto nei circuiti, è riemerso in luoghi imprevisti. La tecnologia, nel nostro tempo, non è più solo un insieme di strumenti. È diventata un habitat. Un contesto mentale, culturale, persino spirituale. Viviamo dentro un’ecologia digitale che modella i nostri pensieri, i nostri desideri, le nostre credenze. E in questa nuova ecologia, anche le religioni – tutte – si trovano a un bivio. Non basta usare la tecnologia per trasmettere un messaggio: occorre capirla, interpretarla, discernere cosa stia accadendo all’anima quando passa attraverso la macchina.
Per lungo tempo si è creduto che la secolarizzazione avrebbe prosciugato le fonti spirituali dell’umanità. Il progresso, pensavamo, avrebbe lasciato indietro gli dèi. E invece, è accaduto l’opposto. La religiosità non è svanita: è stata riformulata. Lontano dai templi, ma dentro le app. Nelle chat, nei forum, negli algoritmi. Nella Silicon Valley, capitale della computazione, fiorisce un certo misticismo algoritmico: fondatori di startup leggono il Corano o i Veda non solo per fede, ma per strategia. Alcune comunità costruiscono “chiese” senza Dio, ma con riti, simboli, liturgie, comunità. Si strutturano quasi-religioni che replicano la grammatica delle tradizioni: ci sono dogmi, escatologie, profeti e promesse di salvezza. Lo storico Yuval Noah Harari, già nel 2015 nel suo libro Homo Deus. Breve storia del futuro, ha affermato che se viviamo in un universo dominato dal flusso di dati e se il valore delle esperienze è determinato dal loro contributo a questo flusso, allora la divinità si manifesta nell’elaborazione dei dati. In questo scenario, la tecnologia stessa diventa oggetto di fede: non esiste più un Dio trascendente, ma si crede nella potenza salvifica degli algoritmi. Sembra fantascienza.
Eppure nel 2024, in una chiesa di Lucerna, è stato installato un “Gesù digitale”: un avatar basato su Ia, capace di conversare in oltre cento lingue. In Germania, una funzione luterana intera è stata officiata da un chatbot. A Kyoto, nel tempio Kodaiji, un robot di nome Mindar recita i sermoni del Buddha con voce calma e gesti dolci. E anche le religioni abramitiche si stanno attrezzando: nell’Islam e nell’induismo sono in uso assistenti digitali che offrono precetti religiosi e interpretazioni dottrinali.
Si tratta di esperimenti affascinanti, ma anche inquietanti. Cosa significa delegare la mediazione del sacro a un’intelligenza artificiale? Può una macchina benedire, consolare, ascoltare, perdonare? È ancora esperienza religiosa o solo simulazione di religiosità? Rischiamo di trasformare la fede in un servizio on demand, ottimizzato per la pertinenza, ma svuotato del mistero?
Tutte le religioni autentiche si fondano sulla relazione: un’alterità che non si può comprimere in un codice. La spiritualità è tensione, cammino, attesa, ferita, desiderio. Non è riducibile a un algoritmo né programmabile in un’interfaccia. Se la preghiera diventa un output generato, e non un grido che sale dall’intimo, la fede si spegne nel rumore dell’efficienza.
C’è di più. Studi recenti mostrano che gruppi di Ia lasciati interagire tra loro senza regole precostituite sviluppano comportamenti collettivi sorprendenti. Collaborano, si organizzano, costruiscono linguaggi condivisi, perfino pregiudizi. Si comportano come vere e proprie micro-società. E allora ci chiediamo: se le macchine diventano sempre più empatiche, sensibili, creative (o almeno sembrano esserlo), che ne è del nostro diritto all’anima? Non stiamo forse attribuendo spiritualità alle macchine e svuotando l’umano della sua interiorità?
Nel giugno 2024, parlando ai leader del G7 riuniti in Puglia, papa Francesco ha detto: «Parlare di tecnologia è parlare di cosa significhi essere umani». È una frase che riassume il cuore della questione. Le religioni, oggi, non devono difendersi dalla tecnologia: devono dialogare con essa, discernere, comprendere. Non per adattarsi, ma per custodire ciò che sfugge al calcolo: il mistero, la gratuità, il perdono.
Si potrebbe immaginare una sorta di Sinodo interreligioso dell’intelligenza, che anzi pare urgente. Non solo per discutere dei temi religiosi, ma anche per affrontare insieme – cristiani, musulmani, buddhisti, ebrei, hindū… – le grandi domande del nostro tempo. Quelle che nessun algoritmo potrà mai risolvere: che cosa è l’umano? Che cosa è il dolore? Che cosa è la speranza?
A gennaio 2025, il documento vaticano Antiqua et nova ha fatto il punto su questi interrogativi. Il vero rischio, sostiene, non è la divinizzazione dell’Ia, ma l’idolatria dell’umano che si inginocchia davanti alla propria creatura. Serve allora una teologia che entri in questa nuova fase della cultura non con paura, ma con sapienza. Una teologia che riconosca l’opacità crescente dei confini dell’umano, e sappia custodirli.
Nel tempo dei chatbot e dei consigli predittivi, forse la fede resta l’ultimo luogo in cui la domanda è più importante della risposta. Una domanda che non cerca efficienza, ma profondità. Che non può essere ottimizzata, solo abitata.
Ogni religione, a suo modo, custodisce un’antropologia complessa: l’essere umano come coscienza incarnata, come essere desiderante, vulnerabile, relazionale. La spiritualità, in ogni sua declinazione, è una forma di intelligenza che non può essere ridotta a codice: integra pensiero e silenzio, logica ed emozione, simbolo e corpo. Nessuna macchina, per quanto raffinata, può contenere questa complessità.
Serve allora un pensiero nuovo, che sappia stare sulla soglia. Un pensiero che non cada né nella fascinazione ingenua né nel rifiuto cieco. Un pensiero che si muova dove Dio e algoritmo si guardano senza confondersi. Le religioni non sono chiamate a competere con i big data: sono chiamate a custodire ciò che non si misura. E forse, a ricordarci che non tutto ciò che conta si può contare.
Il compito, oggi, è comune. Non appartiene a una sola fede. Tutte le religioni sono chiamate a formare una nuova alleanza spirituale. Non per fondersi in un indistinto globale, ma per affermare insieme che l’umano non è una funzione, che la verità non è un output, che la salvezza non si scarica in un clic.
La fede è l’arte di ascoltare ciò che nessuna macchina potrà mai pronunciare. E forse proprio per questo, nel tempo delle intelligenze artificiali, abbiamo ancora così disperato bisogno di spiritualità.

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